La crisi del capitale come variabile indipendente

 

‘Nessuno ama l’uomo che porta cattive notizie’.

Sofocle, Antigone

Non aspettare il giudizio universale. Avviene ogni giorno’.

Albert Camus

 

Aragorn Che cosa temi dunque, mia signora?” “Una gabbia” rispose Éowyn, senza riflettere, “Rimanere chiusa dietro le sbarre, finché il tempo e l’età ne avranno fatto un’abitudine, e ogni occasione di valore sia diventata un lontano ricordo o un desiderio”

Tolkien

 

 

 

Premessa

L’attuale ricerca si basa sulle analisi contenute in ”Chaos imperium 2.0″, ottobre 2019, e in ”Prospettive di sistema (previsioni per l’anno 2020)” gennaio 2020. Tali analisi vanno aggiornate, con l’aggiunta di due dettagli, ovvero la pandemia corona-virus e il ribasso del prezzo del petrolio. Questi due nuovi dati non possono modificare il meccanismo di sviluppo della crisi del capitale, un dato immanente e ineliminabile dall’orizzonte storico del capitalismo. Dunque i due suddetti fattori di novità, in realtà, entrando in relazione con il suddetto orizzonte, contribuiscono a buttare benzina sul fuoco mai spento della crisi del capitale (una crisi da sovrapproduzione di merci e capitali, che nasce nell’ambito dell’economia reale e poi si sposta sul piano derivato della finanza e del credito) . Nel seguito della presente ricerca, divisa in tre capitoli, cercheremo di riprendere le analisi marxiste sulla logica immanente della crisi del capitale. Successivamente, proveremo a ricollegarci alle analisi condotte nei due articoli sopracitati. Infine costruiremo un modello previsionale che contenga alcuni scenari alternativi, verosimilmente ipotizzabili a partire dai dati economici, finanziari e geopolitici contingenti.

Riportiamo, a scopo di chiarimento una lunga citazione da ”Chaos Imperium 2.0′‘, tale citazione condensa la visione del blog sul tema ricorrente della previsione delle crisi: ”Ovviamente le previsioni degli investitori, e le correlate analisi degli osservatori, non possono offrire, con certezza scientifica, la conoscenza futura degli eventi. Comunque è sempre meglio tenerne conto. Il problema di una migliore o peggiore capacità previsionale degli analisti finanziari, da un punto di vista marxista è relativamente importante, perché per il marxismo la crisi del capitale è un dato permanente, in quanto la caduta tendenziale del saggio medio di profitto non smette mai di operare in sottofondo. La sovrapproduzione di merci e la sovra-accumulazione di capitali, è una conseguenza della variazione della composizione organica del capitale aziendale, determinata dalla lotta per la concorrenza e dalla anarchia della produzione.  Disoccupazione, sovrappopolazione e miseria crescente impediscono alle merci prodotte dall’industria di trovare una adeguata e remunerativa possibilità di vendita sul mercato.

Il capitalismo, dunque, proprio come un cane che si morde la coda, pone in essere a livello potenziale e attuale, le crisi ricorrenti da sovrapproduzione che poi, normalmente, vengono segnalate in anticipo da taluni movimenti della sfera finanziaria. Le crisi finanziarie, e quindi anche le bolle speculative vaganti, sono il sintomo, non la causa delle crisi dell’economia reale. In realtà quando i margini di profitto nell’economia industriale diventano minimi, anche la sfera del credito bancario ne risente, per il semplice motivo che se le attività economiche reali sono ferme, svanisce pure la possibilità di concedere prestiti alle famiglie e alle imprese. Dunque le crisi bancarie sono un effetto derivato del rallentamento delle attività economiche del settore industriale. In successione ne risente anche il business del settore commerciale, e infine la crisi del capitale industriale si ripercuote sulla sfera finanziaria. In quest’ultima sfera, la fame di lucro si manifesta di solito come un gioco di scatole cinesi. Un gioco tipico può essere la compravendita, ripetuta molte volte, dello stesso titolo ( obbligazione pubblica o privata), in questo modo i vari acquirenti e venditori cercano di rosicchiare dei margini speculativi di guadagno, dalle successive differenze fra i vari prezzi di acquisto e di vendita”. Tratto da ”Chaos Imperium 2.0”.

Le argomentazioni suddette sintetizzano il pensiero del blog sulle dinamiche profonde che agiscono dietro la crisi. Ma allora perché una parte del mondo politico-finanziario esprime periodicamente delle previsioni sul futuro prossimo della crisi?

In cosa consiste tale crisi?

Dal nostro punto di vista la crisi è sempre in atto, perché la miseria crescente e la sovrapproduzione non cessano mai di operare, con più o meno intensità. Allora il termine crisi, non potendo significare la manifestazione di fenomeni dal contenuto economico nuovo e inusitato, dal nostro punto di vista, deve riferirsi solo all’incremento quantitativo di tali fenomeni, in un arco di tempo limitato.

Dunque se i fenomeni principali che segnalano la crisi permanente del capitalismo sono la caduta del saggio di profitto, la sovrapproduzione, il calo della domanda, la chiusura di imprese, la disoccupazione e la miseria, oltre che le crisi finanziarie legate al cattivo andamento dell’economia reale e l’aumento del debito globale, allora il salto verso un tipo di crisi non paragonabile a quella permanente sarà fondamentalmente dato dall’incremento quantitativo dei fenomeni sopra esposti.

Quindi la crisi è solo l’accentuazione delle disfunzioni, possiamo definirli fenomeni, tipici dell’economia capitalistica.

In generale l’evento che salta subito all’occhio, e spesso viene enfatizzato e incompreso, sia dai mass media generalisti, che da qualche analista finanziario, è il crack delle borse, determinato dalla sfiducia degli investitori ( la quale a sua volta è determinata però dalla situazione critica dei fondamentali parametri macroeconomici).

In apparenza il crollo delle borse è la causa della crisi, almeno per chi si ferma alle apparenze, mentre in realtà è solo l’epifenomeno delle dinamiche profonde dell’economia capitalistica. Adesso, come anticipato all’inizio della premessa, proveremo a ragionare su alcuni passi del capitale, presenti nel primo e nel terzo volume.

 

Primo capitolo: le cause concatenati della crisi del capitale ( ripasso e approfondimento di argomenti già affrontati in vari articoli del blog)

“Gli dei non si muovono mai più rapidamente di quando puniscono gli uomini con le conseguenze delle loro stesse azioni.” Sofocle

Qui fodit foveam, incidet in eam (Chi scava la fossa, in essa precipita)

Proponiamo una citazione dal Terzo libro del capitale. Pagina 315 (versione ebook)

”Il saggio del profitto può coincidere con il saggio del plusvalore solo nel caso che c = 0 , vale a dire quando il capitale complessivo fosse speso integralmente sotto forma di salario ( Situazione infrequente nella realtà economico-aziendale n.n). Un saggio del profitto decrescente esprime un saggio del plusvalore decrescente solo quando rimanga invariato il rapporto fra il valore del capitale costante e l’ammontare della forza-lavoro che lo mette in opera, o quando l’ammontare della forza-lavoro si sia accresciuto rispetto al valore del capitale costante…..Caduta del saggio di profitto ed accelerazione dell’accumulazione sono semplicemente diverse espressioni di uno stesso processo, ambedue esprimendo lo sviluppo della forza produttiva. L’accumulazione accelera la caduta del saggio del profitto, in quanto determina la concentrazione del lavoro su vasta scala e quindi una composizione superiore del capitale. Del resto la diminuzione del saggio del profitto accelera a sua volta la concentrazione di capitale e la sua centralizzazione tramite l’espropriazione di piccoli capitalisti, degli ultimi produttori diretti sopravvissuti presso i quali vi è ancora qualcosa da espropriare. L’accumulazione in quanto massa viene quindi accelerata, mentre il saggio di accumulazione diminuisce insieme al saggio del profitto. Del resto, dato che il saggio di valorizzazione del capitale totale, il saggio del profitto, è la molla della produzione capitalistica (come la valorizzazione del capitale ne è l’intrinseco fine) la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e si presenta come un ostacolo per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico.  Difatti favorisce la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, un eccesso di capitale insieme a un eccesso di popolazione. Gli economisti i quali, come Ricardo, considerano come assoluto il modo di produzione capitalistico, si accorgono adesso che tale modo di produzione genera esso stesso dei limiti ed attribuiscono questi ultimi non alla produzione, bensì alla natura (nella teoria della rendita). L’“horror” che essi sentono dinanzi alla tendenza alla diminuzione del saggio del profitto è provocato soprattutto dal fatto che il modo di produzione capitalistico trova, nello sviluppo delle forze produttive, un limite che ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza in quanto tale; e questo particolare limite testimonia del carattere ristretto, semplicemente storico, transitorio, del modo di produzione capitalistico; prova che esso non costituisce affatto l’unico modo di produzione in grado di generare ricchezza, ma, al contrario, arrivato ad un certo punto entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo”. Marx, terzo libro del Capitale.

Proviamo a ripercorrere i vari passaggi logici della citazione: 1) in via ipotetica, se il capitale aziendale investito, servisse solo a pagare la forza lavoro, allora una diminuzione x del plusvalore si trasformerebbe in una diminuzione x del profitto, tuttavia noi sappiamo che il capitale complessivo aziendale (Capitale costante più capitale variabile) non è solo investito nell’acquisto di forza lavoro, ma anche nell’acquisto di materie prime, energia, mezzi tecnici, dunque aumentando o diminuendo il costo di acquisto di tali fattori produttivi può aumentare o diminuire il saggio di profitto aziendale, in una proporzione percentuale non collimante con le variazioni in aumento o diminuzione del saggio del plusvalore ( collegato al plus-lavoro estorto alla forza lavoro).

2) La concentrazione dei capitali è determinata dalla caduta del saggio di profitto, a sua volta collegata all’anarchia della produzione e alle leggi della concorrenza. In altre parole, sotto la spinta della ricerca di profitti sempre più alti, da reinvestire nell’azienda per ingrandire le sue dimensioni ( concentrazione) e per battere la concorrenza, si verifica ripetutamente una modificazione della composizione organica del capitale aziendale. Tale modifica, ripetuta molte volte nel corso del tempo, si sostanzia nella progressiva riduzione del capitale variabile a tutto vantaggio del capitale costante. Il primo termine indica la forza lavoro, o se vogliamo la parte di capitale impiegata su base annua nel pagamento dei salari ( ma anche dei contributi sociali per il lavoratore). Il secondo termine indica il macchinario e le altre immobilizzazioni ( materiali e immateriali) impiegate per più di un anno contabile nell’attività aziendale. Dunque variabile e costante sono due termini che indicano l’impiego temporale di due differenti tipologie di fattori produttivi. Fattore umano e fattore tecnico. Tuttavia solo il fattore umano è in grado di valorizzare il valore del capitale complessivo, investito nell’acquisto di risorse tecniche e umane. Se l’impresa aumenta l’investimento in capitale costante, riesce anche a rimpiazzare con esso una parte dei lavoratori salariati, e pagando meno salari, l’impresa può ottenere un profitto più alto.

3) Il profitto più alto, inteso come utile di fine anno maggiore rispetto alla situazione precedente la variazione della composizione organica del capitale, non significa affatto un incremento del saggio di profitto. Normalmente l’aumento del capitale costante, a detrimento del capitale variabile, si traduce in una caduta del saggio di profitto.

Questo accade regolarmente nell’economia capitalistica, sebbene ci siano molti economisti che giudicano sbagliata la teoria del valore-lavoro, ovvero la teoria che Marx riprende da Ricardo, basata sull’idea che il lavoro crea valore.

Dunque se il lavoro crea valore, sarà il plus-lavoro non retribuito, a formare il plusvalore, che costituisce la parte fondamentale del profitto aziendale.

Rifiutando tale evidenza elementare, l’economia borghese è costretta a ricercare l’origine del profitto nella dinamica dei prezzi, cioè nella sfera della circolazione.

Marx ha buon gioco nel dimostrare che alla fine, nella sfera della circolazione, i differenti prezzi di vendita si compensano, formando un prezzo medio corrispondente al prezzo delle merci che incorporano il plusvalore medio ( inteso come la media ottenibile dal plusvalore contenuto nelle merci prodotte da un certo numero di imprese).

La sfera della circolazione è tuttalpiù come un elastico, che si allunga e si restringe, restando infine di lunghezza invariata.

4) Accettando la fondatezza della teoria del valore-lavoro, è inevitabile concludere che la sostituzione del lavoro umano con l’attività delle macchine, mentre da un lato può consentire di produrre un volume maggiore di merci, e quindi maggiori ricavi di vendita, dall’altro lato determina la riduzione percentuale del plusvalore incorporato nelle singole merci, a causa della riduzione dell’unico fattore ( il lavoro) in grado di creare davvero il valore.

Dunque mentre da un lato i profitti aziendali crescono sul piano puramente monetario, a causa del maggiore volume di produzione e di vendite, il saggio di profitto cala.

Il tasso di redditività del capitale proprio, in economia aziendale è infatti la risultante del rapporto fra utile annuo e capitale proprio, moltiplicato per cento.

Se aumenta il capitale costante, vuol dire che aumenta anche la base del rapporto. Facciamo un esempio.

Prima dell’aumento del capitale costante avevamo: utile euro 3000, capitale proprio euro 30000. Dunque 3000/30000*100=10%.

Dopo l’aumento del capitale costante potremmo avere: utile euro 4000, capitale proprio euro 60.000. Dunque 4000/60000*100=6,67%.

Tale formula in uso nella contabilità, non è coerente con la formula contenuta nella citazione seguente, ‘‘il saggio del profitto è espresso dalla formula pv : C”. Infatti se C può essere considerato identico nelle due formule, sicuramente PV e utile d’esercizio contabile non sono la stessa cosa. Tuttavia, aumentando il valore di C, e la concentrazione e centralizzazione dei capitali aumentano sempre il valore di C, si pongono le condizioni per la riduzione percentuale del saggio di profitto, in entrambe le formule.

5) Riportiamo di nuovo, pari pari, un passaggio decisivo: ”Del resto, dato che il saggio di valorizzazione del capitale totale, il saggio del profitto, è la molla della produzione capitalistica (come la valorizzazione del capitale ne è l’intrinseco fine) la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e si presenta come un ostacolo per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico. Difatti favorisce la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, un eccesso di capitale insieme a un eccesso di popolazione”.

La caduta del saggio di profitto rallenta la nascita di nuove attività economiche, viceversa incrementa i processi di concentrazione e centralizzazione. La sovrapproduzione di merci deriva dal tentativo di compensare con un numero maggiore di prodotti il minore contenuto di plusvalore presente mediamente a livello di singola unità. La caduta del saggio di profitto favorisce la speculazione finanziaria, a causa della possibilità di ottenere nella sfera finanziaria dei tassi di rendimento ( almeno per una parte del capitale in circolazione) superiori a quelli conseguibili nell’economia reale.

La caduta del saggio di profitto spingendo le imprese economiche a investire nell’acquisto di capitale costante, allo scopo di limitare i costi del personale e ottenere una maggiore capacità di produrre merci, determina la crescita dell’esercito industriale di riserva disoccupato e della miseria. Tale aumento, dal punto di vista demografico si configura come sovrappopolazione. Ovviamente la sovrapproduzione di merci invendute determina, ad un certo livello, una sovra-accumulazione di capitali, non adeguatamente valorizzabili nemmeno nella sfera finanziaria. Infine avremo quote di  capitale monetario o industriale il cui valore attuale, in altre parole, è destinato a deperire a causa della impossibilità di impiego, e quindi di valorizzazione. Si consideri che il capitale costante tecnico è soggetto a perdita di valore semplicemente stando fermo, sia perché in quanto macchinario è danneggiato dall’assenza di attività e manutenzione, sia perché nel tempo in cui sta fermo rischia di diventare obsoleto, cioè superato dal punto di vista tecnologico. La crisi, ricorda Marx, distrugge il capitale anche nel senso che rende inutilizzabile la sua originaria funzione produttiva. La crisi distrugge la funzione produttiva del capitale.

Questo combinato di fenomeni derivanti dalla caduta del saggio di profitto, costituisce un ostacolo all’ulteriore sviluppo del processo di produzione capitalistico. In altre parole determina la crisi del capitale sul piano economico.

Non essendoci nessun automatismo fra la crisi economica e la fine o il collasso del sistema di potere politico e sociale capitalistico, è ampiamente verificabile (dalle lezioni della storia) che mettendo in campo una distruzione immane del capitale costante e variabile in eccesso, l’economia capitalistica globale può rilanciare, per un certo tempo, il ciclo di riproduzione allargata del capitale. Le due guerre mondiali, oltre a favorire il rilancio dell’economia, hanno determinato, sul piano geopolitico, una rimodulazione dei rapporti gerarchici fra i vari apparati capitalistici. In modo particolare, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, si è configurato uno scenario di confronto/scontro fra due super apparati capitalistici ( USA e Russia), a cui si è aggiunto di recente un terzo super apparato ( Cina).

Un altra citazione: Terzo libro del Capitale, pagina 319 (versione ebook).

‘È questa separazione fra le condizioni del lavoro da una parte ed i produttori dall’altra, che costituisce la nozione di capitale; essa ha come punto di partenza l’accumulazione originaria (Libro I, capitolo XXIV), continua a manifestarsi come processo costante nell’accumulazione e nella concentrazione del capitale e qui finalmente si esprime nella centralizzazione dei capitali già esistenti in poche mani e nella de-capitalizzazione dei più (forma in cui si manifesta ora l’espropriazione). Questo processo avrebbe come conseguenza quella di portare rapidamente la produzione capitalistica allo sfacelo, qualora altre tendenze contrastanti non esercitassero di continuo un’azione centrifuga accanto alla tendenza centripeta.
II. CONFLITTO FRA L’ESTENSIONE DELLA PRODUZIONE E LA VALORIZZAZIONE.
Lo sviluppo della produttività sociale del lavoro si manifesta in due modi: innanzitutto nel volume delle forze produttive già prodotte, nell’entità del valore e della massa delle condizioni di produzione che danno luogo alla nuova produzione e nella grandezza assoluta del capitale produttivo già accumulato; in secondo luogo nella relativa esiguità della parte di capitale spesa in salario in rapporto al capitale complessivo, ossia nella quantità relativamente modesta di lavoro vivo che è richiesta per riprodurre e valorizzare un capitale determinato, per la produzione in massa. Ciò presuppone nel medesimo tempo la concentrazione del capitale. In rapporto alla forza-lavoro impiegata, lo sviluppo della forza produttiva si palesa nuovamente sotto un duplice aspetto: innanzitutto nell’incremento del plusvalore ossia nella diminuzione del tempo di lavoro necessario che è richiesto per la riproduzione della forza-lavoro; secondariamente nella riduzione della quantità della forza-lavoro (numero degli operai) che viene impiegata per mettere in opera un capitale determinato. Questi due movimenti non solo agiscono simultaneamente, ma si determinano reciprocamente, sono manifestazioni di una medesima legge. Essi tuttavia agiscono in senso opposto sul saggio del profitto. La massa complessiva del profitto corrisponde alla massa complessiva del plusvalore e il
saggio del profitto è espresso dalla formula pv : C. Ma il plusvalore come totale è determinato in primo luogo dal suo saggio, in secondo luogo dalla massa di lavoro contemporaneamente impiegata a questo saggio o, ciò che significa la stessa cosa, dalla grandezza del capitale variabile. Da un lato uno di questi fattori, il saggio del plusvalore, aumenta, dall’altro lato il secondo fattore, il numero degli operai, diminuisce in senso relativo o assoluto. In quanto lo sviluppo delle forze produttive fa diminuire la parte pagata del lavoro impiegato, esso accresce il plusvalore aumentandone il saggio; in quanto tuttavia diminuisce la massa complessiva del lavoro impiegato da un determinato capitale, esso diminuisce il coefficiente numerico con cui viene moltiplicato il saggio del plusvalore per ricavarne la massa”. Marx Il Capitale, Terzo libro, pagina 319 (versione ebook).

Ci colleghiamo all’ultima frase. Il saggio percentuale del plusvalore può aumentare, essendo ora il singolo operaio in grado di produrre più merci nello stesso tempo precedente l’aumento del capitale costante, cioè precedente lo sviluppo delle forze produttive. Tuttavia, diminuendo il numero di operai ( capitale variabile), cioè la massa di lavoro impiegato, diminuisce il numero con cui viene moltiplicato il saggio del plusvalore per ottenerne il valore monetario (PV) da dividere con C. Di conseguenza si verifica la caduta del saggio di profitto.

Ci sembra interessante inoltre una affermazione contenuta all’inizio della citazione: la crescita della produttività del lavoro si manifesta in due modi: 1) attraverso l’aumento del valore complessivo dei mezzi di produzione, 2) attraverso la progressiva riduzione del quantum di lavoro umano necessario per produrre lo stesso volume di merci. Questi due aspetti dell’aumento della produttività del lavoro sociale sono un altro modo di descrivere la tendenza storica alla variazione della composizione organica del capitale. Accumulazione, concentrazione e centralizzazione. ‘‘Questo processo avrebbe come conseguenza quella di portare rapidamente la produzione capitalistica allo sfacelo, qualora altre tendenze contrastanti non esercitassero di continuo un’azione centrifuga accanto alla tendenza centripeta”.

Una tendenza contrastante, storicamente sperimentata, è stata la distruzione rigeneratrice di capitale ( costante e variabile) regolarmente verificatasi in occasione delle due guerre mondiali. Ovviamente sbaglierebbe chi pensasse che le guerre mondiali e locali, abbiano rivestito solo il ruolo di pretesto per il rilancio del ciclo economico. In realtà le guerre fra apparati capitalistici svolgono un ruolo decisivo anche ai fini del controllo delle risorse energetiche, e più in generale nella determinazione dei rapporti di forza fra i vari apparati capitalistici ( apparati di stazza imperiale o semplicemente del rango di satelliti e vassalli).

 

 

Secondo capitolo: finanza rosso shocking 

ÈDIPO: Soltanto sugli Dei, figlio carissimo d’Egèo, vecchiezza non incombe o morte; ma tutte quante il Tempo onnipossente l’altre cose sconvolge. Sofocle, Edipo a Colono

 

L’etimologia del termine speculare rinvia allo specchio, ovvero al riflettersi simmetrico di qualcosa in uno specchio. Da questa prima accezione discende l’uso dello stesso termine per indicare  attività come pensare e ragionare, ovvero speculare. Infine il termine in questione è adoperato nel campo finanziario, in genere per indicare l’acquisto di un titolo che sarà rivenduto a un prezzo superiore a quello iniziale.

La specul-azione finanziaria consiste in questo rispecchiarsi dei due prezzi, acquisto e vendita, anche molte volte nel corso di un tempo determinato, al fine di consentire ad uno dei soggetti coinvolti nella compravendita di ottenere un guadagno.

Il valore delle transazioni finanziarie globali su base annua è totalmente staccato dal valore del PIL mondiale.

Soltanto il valore del mercato dei derivati è pari a 33 volte il PIL mondiale, mentre il debito totale è il 226% del suddetto PIL.

Nell’ottobre 2014 è stata pubblicata su affari e finanza ( rubrica del quotidiano Repubblica) una stima del capitale finanziario mondiale, 993 mila miliardi di dollari, a fronte di un pil mondiale di 75 mila miliardi di dollari. Dunque la sfera finanziaria secondo questa stima supererebbe di ben 13 volte l’economia reale. Abbiamo ricordato nel capitolo precedente che il sovraffollamento di capitali nella sfera finanziaria è una conseguenza della caduta del saggio di profitto industriale. Tuttavia, come ricorda Marx, è solo il plusvalore realizzato nei processi produttivi reali che viene poi ripartito sulle varie componenti del capitale complessivo in forma di profitto, interesse e rendita. Dunque, per intenderci, se il saggio del plusvalore aumenta percentualmente, ma cala quantitativamente la sua massa,questo avrà conseguenze sul saggio di profitto industriale, e al contempo sul rendimento medio ( interesse) del capitale finanziario.

Ovviamente non si può mai parlare di una interdipendenza al 100 per 100 fra i due dati ( profitto industriale e interesse finanziario), così come non si può parlare di una correlazione totale fra il calo del  plusvalore e il calo del profitto. Spieghiamo meglio la cosa: se consideriamo i due tipi di investimento principali in una Spa, ovvero l’acquisto di azioni oppure di obbligazioni, allora è facile sostenere che un risultato annuale negativo ( perdita d’esercizio) inciderà direttamente, in forma di assenza di dividendi, sui proprietari di azioni, mentre potrebbe avere scarsa rilevanza per i proprietari di obbligazioni.

In effetti chi investe i propri risparmi in azioni, diventa possessore di una porzione del capitale della Spa, e quindi diventa anche esposto al rischio d’impresa.

In caso di fallimento della Spa, in assenza della possibilità di essere rimborsato, l’azionista perde la somma pagata per l’acquisto delle azioni. Invece l’obbligazionista ha buone possibilità di essere rimborsato, stabilendo la legge il suo diritto di precedenza rispetto ai proprietari di azioni, poiché mentre l’azione è una quota di proprietà, l’obbligazione è una quota di prestito (e i prestiti vanno rimborsati sempre prima delle quote azionarie dei soci).

Le obbligazioni sono spesso remunerate con un interesse a tasso percentuale fisso, quindi escludendo l’ipotesi di fallimento della Spa, in cui possono essere travolte sia le azioni che le obbligazioni, un semplice calo del saggio di profitto, non dovrebbe avere nessuna conseguenza sul tasso di interesse obbligazionario.

Dunque le azioni e le obbligazioni, entrambe considerate investimenti finanziari, normalmente non sono soggette allo stesso modo al calo del saggio di profitto.

Negli ultimi mesi il mercato borsistico- finanziario USA ha visto un aumento delle vendite di titoli azionari, solo parzialmente compensate dall’acquisto sostitutivo di titoli obbligazionari ( pubblici o privati). Si consideri che questo avviene mentre la Fed cerca di sostenere il mercato finanziario pompando nei suoi circuiti, nel solo mese di marzo, varie centinaia di miliardi di dollari. A tal proposito è interessante l’ultima misura decisa dalla Fed, ossia il quantitative easing illimitato. Questo significa che la Fed si impegna ad acquistare senza limiti i titoli emessi da tesoro ( per reperire le somme di cui ha bisogno). In effetti è la vecchia politica monetaria delle banche centrali di stampare banconote per fare tornare a girare l’economia. Basteranno questi input creditizi-valutari a risvegliare gli animal Esprit capitalistici? Si consideri un dettaglio importante, una parte degli aiuti dello stato americano sono rivolti alle imprese in difficoltà (pensiamo alle compagnie aeree danneggiate dal corona -virus, o al settore petrolifero), tali aiuti di stato alla fine li pagheranno i contribuenti. Si consideri che l’emissione ripetuta di dollari, senza la copertura di un corrispondente valore dato dall’incremento reale del PIL annuale, può creare una bolla finanziaria che non può sussistere e durare all’infinito (soprattutto in una fase in cui il dollaro tende ad essere sostituito da altre valute, come lo yuan, il rublo e l’euro, negli scambi internazionali). A questo punto chiediamoci perché una parte importante di investitori azionari ha deciso di vendere. Qualcuno potrebbe rispondere: ma è ovvio, semplicemente per effettuare degli investimenti più redditizi in seguito, con la somma ottenuta dalla vendita delle azioni. Potrebbe essere vero solo in parte, perché le motivazioni di chi vende in generale sono almeno due, la prima l’abbiamo detta, la seconda è la preoccupazione sui rendimenti futuri delle proprie azioni.

Allora chiediamoci quali dati, fittizi o reali, possono creare preoccupazione e sfiducia negli investitori. Teniamo conto innanzitutto che gli investimenti sono di molti tipi. Prima abbiamo descritto per sommi capi la differenza fra azioni ed obbligazioni, tuttavia un altra importante differenza è quella fra titoli del debito pubblico e titoli di Spa private. Lo stato emette obbligazioni, cioè vende ai risparmiatori delle quote di debito, che si impegna a restituire ad una certa scadenza, pagando al risparmiatore-creditore un interesse periodico. Le Spa vendono obbligazioni, ma anche quote di azioni, cioè frazioni del proprio capitale sociale. La crescita del debito pubblico va vista anche come un risultato della maggiore fiducia dei risparmiatori verso lo stato. Fiducia nella solvibilità del debitore statale, quindi fiducia nella capacità dello stato debitore di restituire al cittadino creditore la somma versata.

La fiducia o sfiducia degli investitori è palesemente dimostrata dagli andamenti borsistici, un calo generalizzato dei principali indici dei titoli quotati, come sta accadendo nel mese di marzo 2020,  indica che i risparmiatori nutrono forti dubbi sulla saldezza dei fondamentali macroeconomici.

Lo abbiamo scritto in un recente articolo, la sfiducia degli investitori è ovviamente collegata alla pandemia e al calo del prezzo del petrolio, ma anche, e soprattutto, al mare di debiti presenti in varie economie nazionali. È la montagna di debiti, pubblici, privati/familiari e aziendali che suscita cattivi pensieri negli investitori. Inoltre, considerato il rapporto esistente fra sfera finanziaria (esclusi i derivati) e sfera produttiva (PIL), diciamo di 14 a 1, è normale che anche il più incallito ammiratore dell’economia capitalistica si ponga qualche piccolo punto interrogativo sul suo stato di salute. In modo particolare il calo del prezzo del petrolio, un vero e proprio mezzo di lotta commerciale, de facto, verso la concorrente produzione petrolifera delle imprese USA, ha indubbiamente aggravato il quadro operativo delle aziende USA, costrette già a sostenere costi di produzione più elevati di quelli dell’Arabia Saudita e della Russia. Si consideri che le criticità basiche di sistema, accentuate dal blocco di una parte dell’economia causato dal corona-virus, butteranno nelle fauci del debito una moltitudine di imprese e famiglie, incrementando le differenze fra economie capitalistiche giovani e vecchie, forti e deboli (si legga ‘Europa capitalistica’, e  ‘Prospettive di sistema -previsioni per l’anno 2020’).

A questo punto ecco svelate le cause della crisi, ecco intravista la forma che assumerà il cigno nero, dirà qualche frettoloso osservatore. Tuttavia le cose non stanno esattamente in questo modo.

Al di là dei cigni o dei fringuelli, le cause delle crisi le conosciamo da quando Marx ed Engels sono diventati i catalizzatori e gli interpreti della conoscenza emersa dalle lotte di classe. La base materiale della conoscenza marxista era, ed è tutt’ora, la presenza nella società di una avanguardia umana che attraverso l’azione sperimenta e impara.

La crisi del capitale è un dato permanente, essa opera in background, così come operano al contempo di default le controtendenze alla crisi. Nel 2008 è esplosa in America la bolla speculativa dei sub-prime e dei titoli spazzatura, a cui si è accompagnata una intensificazione delle difficoltà dei parametri macroeconomici globali. Tuttavia il sistema è rimasto vivo e vegeto. In verità è sempre illusorio ritenere che le cicliche crisi economiche (e finanziarie) del capitale possano ferire mortalmente il sistema. Perché il capitale non è solo una grandezza economica, ma è un rapporto sociale di dominazione e subordinazione, dissimulato sotto la parvenza di  una grandezza economica. Dunque è questo rapporto sociale che deve entrare radicalmente in crisi, in altre parole è dalla lotta di classe (motore della storia) che può sorgere la crisi definitiva del capitale. Sul livello qualitativo e quantitativo del conflitto sociale abbiamo di recente scritto nel mese di dicembre 2019 ( Fattori di causa nel conflitto sociale) analizzando la situazione francese, ma anche nel mese di novembre 2019, dando conto delle proteste in Cile e di nuovo in Francia e Grecia. Abbiamo poi commentato il testo ‘Prometeo incatenato’, degli anni quaranta, molto utile per comprendere le dinamiche di subordinazione della maggioranza dei proletari.

Nel testo ‘Il partito umano: il ritorno del re’ abbiamo tentato nuovamente di affrontare il tema del conflitto sociale, stavolta nella sua relazione con la sfera del partito politico, e con il piano archetipico-simbolico che si staglia dietro il partito.

A gennaio, nel testo ‘Prospettive di sistema’, abbiamo dedicato uno dei tre capitoli al tema del conflitto sociale. Infine, nel lavoro ancora in corso d’opera, iniziato a febbraio, ”Conflitto e mutamento sociale: una visione sociologica integrata”, abbiamo tentato un confronto con il pensiero di alcuni sociologi che hanno molto scritto su questo e anche su altri argomenti.

 

In conclusione del secondo capitolo: 1) La crisi economica è la malattia cronica del capitale, tuttavia è una malattia che consente al capitale di sopravvivere, almeno in assenza di una grave e concomitante crisi sociale e politica. 2) Certamente tale sopravvivenza non potrà durare in eterno, semplicemente perché, essendo le risorse del pianeta finite, non si comprende come tale dato sia compatibile con un economia che tende alla produzione e al consumo illimitati. 3) Come ben espresso in una massima filosofica greca, la mano che ferisce è anche la mano che può curare la ferita. Il motivo per cui abbiamo ricordato poc’anzi i vari articoli in cui è affrontata la tematica del conflitto e del mutamento sociale, è proprio quella di dare conto ai lettori degli sforzi che il gruppo di lavoro del blog sta conducendo sulla suddetta tematica. Il capitalismo è un prodotto della storia umana, non è affatto una realtà immutabile, gli uomini  lo hanno creato, dunque gli uomini  possono fermare la sua folle corsa verso l’Apocalisse dell’Antropocene. 

Capitolo terzo: la crisi del capitale come ridefinizione dei rapporti di forza fra apparati capitalistici

“Il futuro lo conoscerete quando sarà arrivato; prima di allora, dimenticatelo.” Eschilo

 

La pandemia da corona-virus sta mettendo in luce, sul piano sociopolitico, la capacità di comando del binomio politica-stato sulla società. Nulla di nuovo sotto il sole, nessun esperimento di controllo sociale in atto. In realtà il maggiore controllo sociale messo in atto dal binomio politica-stato in molti paesi, è funzionale alla prevenzione e al contenimento del contagio, e alla prevenzione dei fenomeni di scollamento dell’ordine pubblico, regolarmente ipotizzabili   nelle situazioni di emergenza.

Lo stato è sempre il serbatoio di potenza della classe dominante, sia che tale potenza si mostri in forma di minaccia latente, sia che si mostri come violenza cinetica. La metafora machiavellica del pugno di ferro rivestito da un guanto di velluto, è un altro modo di esprimere il concetto analogo contenuto in ‘ Forza, violenza e dittatura nella lotta di classe’. Le situazioni straordinarie implicano il ricorso a misure straordinarie. I latini avevano coniato il termine ‘extrema ratio’ per indicare la necessità del ricorso a misure estreme in situazioni di emergenza.

Dunque nulla di nuovo sotto il sole.

Anche sul piano del grande gioco fra apparati capitalistici, è prevedibile che come al solito, la crescita quantitativa dei fenomeni tipici dell’economia capitalistica ( cioè la crisi), spinga i fratelli coltelli borghesi ad una parallela intensificazione della conflittualità. Abbiamo agli inizi di marzo pubblicato un articolo nuovo di zecca, dedicato all’argomento ( Il grande gioco). In questo terzo capitolo tenteremo di sviluppare ulteriormente le analisi contenute nel ‘Grande gioco’, ‘Chaos Imperium 2.0’, ‘Caos e dominio’, ‘Prospettive di sistema’.

 

La società borghese, come tutte le società divise in classi, è irrimediabilmente conflittuale. Il conflitto si dispiega su vari piani di realtà. Un piano di conflitto è quello di classe, esso è caratterizzato dalla lotta fra la classe dominante borghese e la classe sfruttata proletaria.

Un ulteriore piano di conflitto è quello interno alle due classi principali. Ad esempio il proletariato si suddivide almeno in tre sezioni. L’aristocrazia operaia, fondamentalmente integrata nel sistema, e operante come fattore di freno della lotta all’Interno del proletariato. La stragrande maggioranza del proletariato, inglobato nel sistema a causa della metamorfosi che il sistema stesso riesce a produrre nel suo modo di pensare e di agire ( Habitus), in questo caso fa testo l’articolo di Bordiga ‘Prometeo incatenato’.

Infine abbiamo l’avanguardia operaia, cioè la minoranza sociale immune dal virus della metamorfosi, che costituisce la base sociale oggettiva ( consapevole o inconsapevole) del partito della specie umana.

Queste tre frazioni di una stessa classe, entrano talora in relazione con le proteste della  piccola borghesia e del sottoproletariato.

Tali relazioni in generale producono effetti nulli, o addirittura negativi, per l’economia complessiva della lotta di classe, essendo la piccola borghesia e il sottoproletariato una semplice espressione della legge della miseria crescente, che agisce come tendenza alla perdita di status socio-economico per la piccola borghesia, e come degradazione e riduzione della vita a pura lotta per la sopravvivenza, nel caso del sottoproletariato. Ovviamente le tre frazioni del proletariato interagiscono in modo diverso con la piccola borghesia e il sottoproletariato. In una fase di debolezza politica e organizzativa del proletariato, come quella attuale, è facile che esso vada a rimorchio delle lotte del ceto medio, le quali, tuttavia, mirano solo a scaricare proprio sul proletariato i cosiddetti costi della crisi, evitando al ceto medio la perdita di status socio-economico. Anche l’aristocrazia operaia in fondo persegue le stesse logiche sociali del ceto medio. L’avanguardia operaia è in genere immune dalle sirene del ceto medio, e in fondo anche dalle periodiche rivolte vandaliche del sottoproletariato.

La borghesia mondiale si divide in  base a delimitazioni nazionali, che a loro volta danno vita ad alleanze sovranazionali, spesso e volentieri gravitanti intorno ad un apparato guida imperiale. Si consideri che tale costruzione gerarchica rispecchia, a suo modo, le dinamiche economiche di una produzione che avviene sulla base di aziende singole e in concorrenza fra di loro. Tali dinamiche economiche, soggette alle leggi della concentrazione e centralizzazione dei capitali, conducono all’oligopolio ( in determinati settori dell’economia), così come la competizione fra apparati capitalistici, sul piano geo-economico e geopolitico, conduce all’inflazione dello stato, e dunque alla predominanza di pochissimi apparati di potenza mostruosa su tutto il resto.

Per qualche tempo, a partire dalla caduta del muro di Berlino, molti osservatori delle cose politiche hanno sostenuto che fossimo entrati nella fase irreversibile della fine della storia ( intesa come conflitto fra apparati concorrenti e lotta di classe). Al suo posto avremmo assistito allo scontro di civiltà e all’unipolarismo a guida USA.

In effetti lo scontro di civiltà fra Islam e Occidente cristiano ha assunto la forma delle guerre per procura, in cui le forze del fondamentalismo islamico sono state impiegate come forza d’urto all’interno del grande gioco geopolitico. Bastava registrare questo semplice dato per escludere l’esistenza di un mondo a guida unipolare, poiché le guerre si svolgono almeno su un piano bipolare. Ancora verso la fine degli anni quaranta del secolo scorso, Bordiga rispondeva a coloro che parlavano di un governo unico mondiale, ricordando che questo era impossibile, dato il carattere irrimediabilmente conflittuale del capitalismo.

Cosa alquanto strana, anche alcuni analisti che si dichiarano marxisti hanno condiviso l’idea che stessimo vivendo in un mondo unipolare, a guida esclusiva del super-imperialismo USA.

In Chaos Imperium ( il primo della serie) abbiamo evidenziato il rapporto esistente fra le varie filiazioni dell’idea di un unico centro mondiale di comando, o cabina di regia che dir si voglia, e la  concezione kautskiana.

Purtroppo nel corso della storia delle idee alcuni ‘pensatori’ ritornano, magari inconsapevolmente, sugli stessi passi di illustri predecessori, che ovviamente prima di loro avevano smarrito la retta via. Sono molti i soggetti pensanti ( o che almeno pensano di pensare) che dimostrano di avere in dotazione una bussola impazzita. In passato, preda di una marcata vis polemica, il sottoscritto amministratore del blog ha addirittura stilato un elenco delle idee più stravaganti prodotte da vari analisti. Non è il caso di tornare su tale elenco, per quanto mi riguarda ognuno è libero di pensare quello che vuole. Il mondo è bello perché è vario.

Torniamo al tema centrale, e dunque torniamo agli scenari in cui  potrebbe sfociare il confronto fra potenze capitalistiche, in presenza dei seguenti fattori: corona-virus, debito globale, incipiente peggioramento dell’economia.

Chiariamo una cosa, come la crisi del capitale è un dato economico permanente, così pure il grande gioco fra apparati capitalistici è un dato irreversibile della società borghese, si tratta di comprendere  l’incidenza dei tre fattori suddetti sull’evoluzione del gioco. Questi tre fattori operano in modo sinergico, e a loro volta sono inseriti in un contesto fattoriale più ampio, dato dal dualismo fra economie deboli e forti, vetuste ed emergenti. Infine tutti i fattori suddetti sono inseriti nella cornice generale dello specifico potere offensivo e difensivo dei diversi apparati capitalistici ( inteso come complesso militare-industriale e tecnico-scientifico).

Tutti questi aspetti formano la trama attuale del grande gioco, e ne orientano lo sviluppo futuro.

Partiamo dal primo aspetto. Ovvero quale correlazione può essere ipotizzata fra corona-virus, debito e crisi? Il corona-virus, al di là delle varie interpretazioni proposte da alcuni esperti in dietrologia applicata, è in realtà una pandemia reale, che tuttavia opera anche come fattore di accelerazione della crisi del capitale. Spieghiamo meglio: la chiusura di molte attività economiche,  decretata da vari governi, con il susseguente aumento della disoccupazione, spingerà molte imprese e famiglie sul lastrico, oppure a rivolgersi alle banche.

L’ultima opzione determinerà un aumento del debito globale, che già ora ammonta ad oltre il 223% del PIL mondiale. I prestiti e gli aiuti delle banche centrali ai settori economici in crisi non avranno effetti duraturi, basti pensare alla crisi del 2008, innescata negli USA dai crediti garantiti da mutui ipotecari rivelatisi inesigibili ( a causa del crollo del mercato immobiliare). Dunque il pompaggio di denaro fresco di stampa, o il quantitave easing, effettuato da parte delle banche centrali, si è già rivelato in in passato un rimedio temporaneo, essenzialmente inutile a invertire le tendenze sistemiche delle economie vetuste, anziane.

Anche i dazi doganali e il protezionismo sono una misura disperata, facilmente mutabile in effetto boomerang. Il problema del vetusto capitalismo occidentale è nel tipo di concorrenza con cui deve competere, una concorrenza formata da economie nazionali dotati di capitale (costante e variabile) di dimensioni maggiori . Alla fine la popolazione fa la differenza. Trecento milioni di americani non hanno la capacità produttiva di un miliardo e mezzo di cinesi. Così come le risorse energetiche e i minerali presenti nel sottosuolo del continente governato dalla federazione Russa, sono un fattore di forza di cui gli USA sono in parte privi. La stessa caduta del saggio di profitto, più veloce nelle economie di antico insediamento capitalistico, ha in definitiva posto le basi per il decollo economico e industriale dei paesi emergenti. Si consideri infatti che le delocalizzazioni e gli investimenti di capitale in cerca di miglior rendimento nei paesi meno sviluppati, provenienti dalle economie nazionali più sviluppate, ha posto in essere una accelerazione dell’industrializzazione dei primi e il contrario di essa nei paesi investitori. Il voto degli stati Usa della fascia della ruggine ( cioè in fase di deindustrializzazione) ha contribuito alla vittoria di Trump tre anni fa, nelle elezioni presidenziali (ricordiamo che il programma di Trump, mirava innanzitutto a favorire il ritorno dei capitali USA dall’estero, e quindi la re-industrializzazione del paese).

Le considerazioni di cui sopra derivano da una semplice applicazione della logica sistemica dell’economia capitalistica, come descritta a suo tempo da Marx ed Engels, alla situazione contingente.

Si consideri infatti che come nella concorrenza fra singole aziende, alla fine il capitale più forte resta sul mercato e ingloba i resti del capitale avversario (centralizzazione), così pure nel confronto su scala più ampia fra economie nazionali, si verifica lo stesso fenomeno, in veste di assorbimento di interi settori economici dell’economia rivale da parte dell’economia più forte, con successivi fenomeni di riduzione al rango di vassallo e perdita di sovranità per il perdente.

Oligopolio, monopolio, imperialismo.

Abbiamo appena sostenuto che la crisi del capitale e il grande gioco non smettono mai di operare, diciamo in background, al di sotto della superficie del mondo contemporaneo. Nel divenire di queste due variabili di sistema possono intervenire alcuni fenomeni contingenti esterni, come attualmente può dirsi del corona-virus. Il calo del prezzo del petrolio, ma anche l’aumento del debito, sono invece fenomeni interni alla crisi del capitale, aventi un effetto di accelerazione su di essa. La crisi del capitale accentua la rivalità tra apparati capitalistici, e dunque pone in essere la crescita dei fenomeni di scontro violento all’interno del grande gioco.

Il pregresso livello di potenza di fuoco in possesso degli apparati concorrenti, diventa ora fondamentale per  la vittoria o la morte. Come la formica previdente mette da parte le scorte per l’inverno, così pure l’apparato giudizioso accumula le forze prima dello scontro.

Come in una vera e propria saga Western, gli apparati si sfidano sempre per qualche dollaro di plus-lavoro e di petrolio in più, o meglio: energia vitale e risorse della terra da parassitare. Considerato che le ragioni della contesa attuale sono le stesse ragioni indicate nelle citazioni del terzo libro del capitale, riportate nel primo capitolo, si tratta di comprendere in quali aree e con quali mezzi si svolge il grande gioco. Abbiamo già condensato in diversi articoli lo studio del confronto fra i maggiori apparati capitalistici. Il recentissimo ‘Grande gioco’ è in questo senso esemplare.

Proviamo lo stesso a delineare alcune prevedibili linee di sviluppo, tenendo conto di alcune novità emerse nelle ultime settimane.

Siria, Ucraina, Iraq e Iran, Libia, Yemen, Venezuela…sono alcune nazioni in cui si esplica con più virulenza il grande gioco.

 

Parliamo dalla Siria. Le tensioni maggiori si concentrano nella provincia di Idlib, ormai rientrata per oltre il 50% sotto il controllo governativo. Il 5 marzo è stato dichiarato un cessate il fuoco, in seguito ad un accordo politico fra la Federazione russa  e la Turchia.

L’accordo prevede il pattugliamento congiunto russo-turco su due autostrade (M4 e M5), vitali per il collegamento Latakia/Aleppo, e Damasco/Aleppo. Mentre la M5  (Damasco/Aleppo) attraversa un territorio sotto il controllo governativo, la M4  (Latakia/Aleppo) è parzialmente inserita in un territorio controllato dalle milizie. In questo tratto dell’autostrada M4 le pattuglie congiunte non sono riuscite (finora) a consentire la riapertura autostradale. In base all’accordo sul cessate il fuoco la Turchia ha tempo fino alla fine di marzo, per convincere le milizie a rimuovere ogni ostacolo e resistenza verso la riapertura. In caso contrario è prevedibile che l’esercito siriano, con il sostegno dei suoi alleati (Russia, Iran, Hezbollah) riprenderà le operazioni militari interrotte a causa dell’accordo del 5 marzo. In sintonia con quest’ultimo scenario si stanno infatti registrando dei movimenti di truppe e mezzi del SAA (Syrian Arab Army), dalla provincia di Latakia verso la parte occidentale della provincia di Idlib, in direzione della città strategica (per il controllo dell’autostrada M4) di Jisr ash Shughūr.

Nell’ipotesi di una ripresa delle operazioni militari del SAA, per la sconfitta definitiva delle milizie jihadiste, cosa farà la Turchia e il complesso USA-NATO? Probabilmente nulla, a patto che il colpo inferto sia rapido e risolutivo, e quindi non lasci altra scelta che la presa d’atto della sconfitta totale delle milizie. Passiamo all’Iraq, in questo paese si intrecciano, come d’altronde in molte società capitalistiche, dinamiche di protesta sociale su base proletaria e riposizionamenti di interessi borghesi interni e internazionali.

Il petrolio rappresenta una importante fonte di ricchezza, in quanto rendita, per la borghesia irakena. Il modo in cui questa rendita dovrebbe essere spartita fra le varie frazioni che formano la borghesia irakena, è all’origine di molte vicende passate e recenti svoltesi sul teatro irakeno. Le strategie caotiche USA impiegate nel grande gioco mediorientale, hanno avuto l’effetto contrario di rinforzare i rapporti politici ed economici fra Iraq e Iran. L’isis, in quanto fattore oggettivo di disturbo della cooperazione politica e commerciale fra Siria, Libano, Iraq, Iran, Yemen, Egitto, Algeria è stato in definitiva neutralizzato durante una lotta ultra-quinquennale. Dunque molti paesi mediorientali, sventata questa minaccia, si orientano a stipulare accordi di cooperazione economica e militare con i due apparati capitalistici di Russia e Cina. In altre parole il surplus di capitali della Cina e la tecnologia militare Russa, diventano dei poli attrattori per molti paesi dell’area mediorientale. Ovviamente tali dinamiche cooperative escludono il declinante apparato USA, stracolmo di debito pubblico, debito delle famiglie e debito aziendale, dunque non in grado di investire e di competere  alla pari con le attuali economie emergenti.

L’unica carta ancora in possesso all’apparato USA è il presunto strapotere militare. Tuttavia, come insegnano le recenti vicende mediorientali, questa è una carta inutile, quando ti devi confrontare con una superpotenza militare-nucleare come la Russia (1)

Quando si prefigurano gli scenari di una imminente crisi mondiale, è importante considerare tutte le variabili di sistema, dipendenti e indipendenti. A tal proposito chiariamo una cosa, come la crisi del capitale è un dato economico permanente, così pure il grande gioco fra apparati capitalistici è un dato irreversibile della società borghese, si tratta di comprendere  l’incidenza di tre fattori contingenti sull’evoluzione del grande gioco (corona-virus, debito globale, incipiente peggioramento dell’economia). Questi tre fattori operano in modo sinergico, e a loro volta sono inseriti in un contesto fattoriale più ampio, dato dal dualismo fra economie deboli e forti, vetuste ed emergenti. Infine tutti i fattori suddetti sono inseriti nella cornice generale dello specifico potere offensivo e difensivo dei diversi apparati capitalistici ( inteso come complesso militare-industriale e tecnico-scientifico).

Il blog della civetta è una piccola voce nel mare della comunicazione, una voce che tenta lo stesso, con le sue forze limitate, di fornire una qualche controinformazione rispetto alle narrazioni dominanti. Una di queste narrazioni è quella sulla incombente crisi economico-finanziaria, susseguente all’emergenza corona-virus. In alcune analisi si suppone che stia per scoppiare la crisi, stia per arrivare la crisi, stia per accadere qualcosa di inaudito. Come si può ben arguire leggendo le citazioni presenti nel primo capitolo, citazioni tratte dal terzo libro del Capitale di Marx, la crisi è invece l’orizzonte permanente del capitalismo, una malattia cronica che in certe occasioni raggiunge dei picchi acuti, ma non provoca la morte del malato, poiché la morte può essere provocata solo dall’intervento di un soggetto sociale e politico intenzionato a dare una svolta alla storia. Nel corso della storia contemporanea la crisi economica (cronica o acuta) è il piano oggettivo, mentre la crisi sociale e politica, in parte dipendente dalla crisi economica, rappresenta il piano soggettivo, una concatenazione di piani che, in determinate circostanze, potrebbe aprire la porta all’intervento di un soggetto politico, libero di volere e di decidere, per cambiare la storia.

(1)’‘ Nel gennaio 2019 il tasso di crescita del PIL nominale cinese era 6,9%, mentre quello degli Stati Uniti è stato del 2,2%. I dati numerici esposti bastano a dare un idea generale del progressivo superamento dell’economia americana da parte di quella cinese. Tuttavia la potenza di un apparato è data dalla somma di due forze, la forza appartenente alla struttura economica e la forza della sovrastruttura politico-militare. L’esercito cinese sta compiendo grossi passi in avanti, mentre in alcuni settori (portaerei, dotazione di armi nucleari) non è ancora al livello degli USA. Tuttavia l’alleanza con la federazione Russa ha fatto venire alla luce un blocco economico-militare forse senza uguali nel corso della storia, ed è con questo potente super apparato che il declinante impero USA deve confrontarsi”. Il grande gioco

 

 

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