Afghanistan, agosto 2021: il memento mori dell’impero USA

Nota redazionale: agosto 2021, le milizie talebane controllano quasi tutte le province afghane, inclusa la capitale Kabul, si registrano scene di fuga disperata di una parte della popolazione all’aeroporto della capitale, il discorso televisivo del presidente americano lascia molti interrogativi irrisolti. Potremmo sbagliare, ma forse ce n’è in abbondanza per parlare dell’ennesimo memento mori delle strategie geopolitiche USA. Eppure, una parte notevole dell’informazione main stream, non sembra cogliere il senso profondo della questione, ovvero il senso dell’ennesima catastrofe geopolitica in cui sono incorsi gli Usa e i volenterosi alleati europei. Verrebbe quasi da dire che il grande reset capitalistico, iniziato con tratti parossistici nel 2020, ha infine prodotto, in base al noto principio dell’eterogenesi dei fini, il ridimensionamento economico e geopolitico proprio delle potenze capitalistiche che erano state le sue principali fautrici. Elenchiamo in sequenza temporale alcune catastrofi politico-militari, ed economiche, che hanno visto protagonisti gli Usa ed alcuni volenterosi alleati negli ultimi decenni: Iraq, Siria, Yemen, Libia, Ucraina, Venezuela, North Stream due, e infine l’Afghanistan. La vicenda afghana, secondo alcune stime, è costata agli USA, da quando è iniziata nel settembre 2001, la somma stratosferica di 2000 miliardi di dollari. A distanza di venti anni dal suo inizio, l’avventura afghana ha ora avuto termine per mano degli stessi talebani che erano stati estromessi dal governo del paese, a seguito dell’intervento della coalizione a guida USA. Negli ultimi tre anni, bisogna ricordarlo, le capacità militari dei talebani erano migliorate, sia in termini di potenza di fuoco, sia dal punto di vista delle strategie belliche. Strategicamente i talebani si sono concentrati sul controllo del territorio delle varie province del paese, evitando di ingaggiare delle battaglie nei capoluoghi provinciali, fortemente armati e presidiati. La coalizione a guida USA era invece prevalentemente asserragliata nelle sue basi, dentro o nei pressi delle maggiori città. Alla fine si era determinata una specie di assedio alle truppe occidentali e all’esercito regolare afghano, chiuso nelle città e nelle basi. Tuttavia la sconfitta afghana non è solo una conseguenza di mosse militari, più o meno appropriate, messe in campo dai contendenti nel teatro locale in questione. In realtà la presenza militare americana in quel teatro locale era ormai diventata anacronistica, in un contesto geopolitico globale profondamente mutato rispetto al 2001. Intendiamo dire che i rapporti di forza fra gli apparati capitalistici, negli ultimi vent’anni, sono decisamente mutati a sfavore degli USA, sia sul piano economico che sul piano militare. Sul blog sono presenti diversi articoli dedicati a tale questione ( Chaos imperium uno e due, Ruina imperii uno e due, The duellists, Il grande gioco uno e due, e via dicendo). Nel presente articolo riprenderemo il filo rosso delle precedenti analisi, tentando al contempo di chiarire i tratti specifici dell’intervento e del successivo ritiro degli USA dall’Afghanistan. Volendo fare una previsione, si può ipotizzare che il ritiro americano molto probabilmente favorirà i principali competitors degli USA: in altre parole la Cina e la Russia.

Parte prima: l’inizio funesto (risucchiati nel black hole)

L’occupazione dell’Afghanistan è stata di poche settimane successiva all’undici settembre 2001. Gli Usa individuarono allora in un organizzazione terroristica, operante anche sul territorio afghano, all’epoca governato dai talebani, la mano che stava dietro gli attentati alle torri gemelle. Tuttavia il rapporto con l’Afghanistan era iniziato molto prima, negli anni ottanta del secolo decimonono, quando per contrastare l’intervento sovietico, gli americani avevano sostenuto i ribelli islamisti che si opponevano all’occupazione della superpotenza rivale. Diciamo pure che si trattava, allora come oggi, di una serie di mosse più o meno intelligenti, compiute sulla scacchiera del grande gioco della competizione permanente fra apparati capitalistici. E’ risibile che un certo numero di realtà che affermano di richiamarsi al marxismo, abbia potuto pensare e qualche volta scrivere, per ben oltre due decenni dopo il crollo dell’URSS, che il corso della storia fosse guidato unicamente dal super imperialismo a stelle e strisce. Si dice che la prima vittima della guerra sia la verità, tuttavia le immagini dei civili afghani aggrappati alle ruote di un aereo che sta decollando dall’aeroporto di Kabul, fungono da antidoto ad ogni mistificazione servile dei fatti, presente e futura. Si consideri questo ulteriore aspetto: sembra che gli USA abbiano investito diverse decine di miliardi di dollari nell’addestramento dell’esercito afghano, per non parlare del costo degli armamenti forniti in dotazione a suddetto esercito. Ebbene l’esercito regolare afghano non ha praticamente opposto nessuna resistenza all’ingresso dei talebani a Kabul. Dunque a cosa sono serviti gli ingenti investimenti compiuti dagli USA? Qualche analista potrebbe rispondere che i suddetti investimenti, al di là dei loro deludenti risultati, sono serviti a far girare l’economia del settore degli armamenti. A nostro avviso questa è una spiegazione riduttiva, che sottovaluta gli obiettivi economici e soprattutto geopolitici, che hanno spinto gli USA a spendere tanti dollari in Afghanistan.

Osservando la posizione geografica di questo paese scopriamo che esso confina con l’Iran, la Cina, il Pakistan, il Tagikistan e l’Uzbekistan. Dunque, per gli USA, tenere gli scarponi dei propri soldati in Afghanistan, ha significato (almeno fino all’altro ieri) la possibilità di incunearsi militarmente in un crocevia confinante con i propri rivali strategici (Russia, Cina, Iran). Sembra, inoltre assodato, che esista il progetto di costruzione di un oleodotto per trasportare le materie prime energetiche delle repubbliche asiatiche, ex sovietiche, soprattutto del Turkmenistan, attraverso il territorio afghano. Ovviamente tale progetto sarà ora controllato e finanziato dai nuovi partner dell’Afghanistan. A questo punto, mettendo da parte ogni dietrologia, resta comunque un dato lapalissiano: gli USA sono stati risucchiati in un buco nero, e sebbene le letture più arzigogolate e cervellotiche continuino a leggere la debacle afghana come la risultante di lotte interne alle cerchie di potere statunitensi (globalisti/nazionalisti), è innegabile che senza la continua attività di guerriglia talebana le cose sarebbero andate per un altro verso. Anche l’Iraq, ben prima dell’Afghanistan, si era trasformato in un buco nero per gli USA, a causa della resistenza islamista sunnita nelle città del nord ovest del paese. Il copione è sempre lo stesso, in seguito ad una conquista iniziale, ottenuta facilmente grazie alla superiore tecnologia bellica, l’esercito USA (e i suoi alleati) si impantanano successivamente in un territorio ostile, con l’incubo di continui scontri e agguati con un nemico sfuggente e feroce. Il controllo militare del territorio, in una situazione di guerriglia endemica, può essere compiuto solo con il sostenimento di costi spropositati (ma sono proprio questi costi insostenibili che hanno distolto gli USA dal continuare a mantenere una presenza, o a ridurre al minimo la presenza di truppe, in molte aree del mondo). La Fed può anche continuare ad emettere miliardi di dollari per finanziare il bilancio pubblico, tuttavia, a fronte di un crescente disavanzo della bilancia commerciale con l’estero, in presenza di un aumento del debito pubblico (insieme a quello delle famiglie e delle imprese), e in concomitanza con l’aumento delle diseguaglianze e della povertà, far digerire all’opinione pubblica le spese militari, per operazioni in territori lontani migliaia di km dalla madrepatria, diventa impresa ardua.

Seconda parte: Memento mori’

Respice post te! Hominem te memento!” 

Qualche analista di faccende internazionali ha ipotizzato, nel tentativo di spiegare il buco nero in cui è stata risucchiata l’alleanza militare-politica a guida USA, una machiavellica operazione di diffusione del caos (da parte americana) per danneggiare i propri rivali ( Cina e Russia). In altre parole gli Usa avrebbero consapevolmente lasciato campo libero ai talebani, allo scopo di destabilizzare le repubbliche asiatiche musulmane ai confini della Russia, e lo Xinjiang cinese abitato dagli uiguri di fede islamica. Una tale ipotesi appare, allo stato attuale delle cose, molto inverosimile, in quanto i talebani non hanno nessun interesse a rovinare i rapporti politici ed economici con le due superpotenze confinanti. La Cina dovrebbe inoltre essere il principale investitore di capitali per la ricostruzione dell’Afghanistan. Un fatto inconfutabile è la visita avvenuta pochi giorni orsono della dirigenza talebana a Mosca e Pechino, segno evidente della volontà di costruire dei rapporti di collaborazione con i due potenti vicini. Queste considerazioni non inficiano il fatto che la strategia del caos, in altri contesti storici e geopolitici, ha dato dei buoni frutti ai suoi momentanei artefici. Agosto 2021, il grande gioco geopolitico si svolge in modo accelerato sotto i nostri occhi, non lascia neppure il tempo di restare sbigottiti. Donne picchiate perché portano i jeans, nugoli di disperati che assediano l’aeroporto di Kabul per fuggire dai nuovi assetti socio-politici, giornalisti televisivi imbarazzati di fronte alle notizie incalzanti che provengono dal buco nero in cui è piombata la nazione guida dell’Occidente capitalistico. Un altra avventura militare finita male, forse ancora peggiore della disavventura vietnamita. La storia non insegna nulla a qualcuno. Altrimenti sarebbe bastato ricordare che l’Afghanistan era stato già teatro di un grande gioco, alla fine dell’ottocento, fra l’impero britannico e l’impero zarista, ed allora era finita male per i primi. Anche l’intervento sovietico del 1979, durato dieci anni, aveva visto in atto un confronto, sia pure indiretto, fra URSS e USA ( ricordano nulla i missili stinger?). La decisione di abbandonare l’Afghanistan era stata l’effetto di un collasso complessivo dell’apparato capitalistico sovietico, troppo mastodontico e costoso per competere efficacemente con il rivale USA. La ristrutturazione capitalistica iniziata negli anni ottanta doveva permettere al centro dell’ex impero sovietico, la federazione Russa, di ritornare competitiva sul piano geopolitico, come in effetti stanno dimostrando, da almeno 15 anni, gli esiti del confronto con l’impero rivale a stelle e strisce. Si consideri soltanto un aspetto di tipo economico: il prezzo di vendita delle materie energetiche e dei minerali presenti nel sottosuolo della federazione Russa. Ai tempi dell’Unione sovietica queste risorse venivano vendute a prezzi politici ai paesi satelliti del patto di Varsavia, mentre oggigiorno sono applicati i prezzi di mercato. Una volta scomparsi i vantaggi commerciali, molti paesi dell’ex patto di Varsavia hanno creduto di migliorare il proprio status aderendo alla NATO e associandosi all’Ue, tuttavia non sempre la realtà è stata all’altezza delle aspettative. Inizialmente anche le ex repubbliche sovietiche asiatiche avevano coltivato le stesse aspettative dei paesi del centro Europa intensificando i rapporti con l’Occidente, anche se negli ultimi dieci anni sono tornati in buona parte nell’alveo della collaborazione privilegiata con la federazione Russa. Negli anni novanta molti analisti avevano intonato il de profundis per la Russia, ignorando il suo potenziale economico, dato innanzitutto dalla immensa mole di metano, petrolio e materie prime di ogni tipo presenti nel suo sottosuolo. Inoltre avevano ignorato la sua storia millenaria, e dunque la capacità di sopravvivenza dimostrata dalle sue classi dominanti nel corso del tempo. Avevano dunque ignorato la forza del suo apparato scientifico-tecnologico funzionale all’industria militare. Cosicché oggigiorno questi intonatori di de profundis non sono in grado di spiegare il gap tecnologico fra i sistemi d’arma russi e quelli occidentali. Ancora oggi si tende a valutare la potenza economica di un paese solo in base al pil, trascurando i cosiddetti assetti patrimoniali ( in modo particolare le ricchezze presenti nel sottosuolo o al largo delle acque territoriali, oppure il background scientifico tecnologico). Questo errore è stato commesso, e incredibile ma vero, è tuttora commesso da alcuni analisti politici occidentali negli articoli che scrivono sulla Russia. In ogni caso, nell’agosto 2021, dovrebbe risultare sempre più arduo, anche per questi ultimi, ignorare l’ennesima debacle USA e la crescita concomitante dell’influenza degli apparati capitalistici di Russia e Cina. Uno scenario prospettato in alcuni articoli di giornale, o semplicemente negli interventi televisivi di qualche commentatore, è quello della resistenza dei tagiki del Panjshir , nel nord dell’Afghanistan, al nuovo assetto di potere. In effetti ci sono molti segnali che indicano uno sviluppo del genere, d’altronde anche prima dell’intervento americano dell’ottobre 2001, la regione montuosa del Panjshir era off limits per i talebani. Il figlio del comandante Massoud, morto pochi giorni prima dell’undici settembre, vent’anni orsono, dovrebbe essere un punto importante di riferimento per la nuova resistenza del Panjshir. Per ora si tratta di un ipotesi molto verosimile, anche se non è da escludere del tutto che possano esservi degli accordi per raggiungere un modus vivendi fra le parti in causa, con la mediazione di altri soggetti statali internazionali. Sembra che alcuni esponenti dell’élite americana non siano molto soddisfatti per la piega presa dagli eventi, innanzitutto per la situazione caotica in corso all’aeroporto di Kabul, e poi per i rischi collegati alla presenza di diverse migliaia di cittadini americani a Kabul, che devono essere evacuati. Anche una parte degli alleati europei della NATO, che pure hanno partecipato alla missione afghana, esprime per ora timide critiche alla gestione del ritiro dall’Afghanistan, mostrandosi al contempo preoccupata per l’arrivo di ingenti masse di profughi. Il dramma dei profughi che fuggono dalla prospettiva di vita in una società, dove vigeranno a breve delle nuove leggi, basate su una lettura molto rigorista della tradizione islamica, è l’aspetto più angosciante della debacle USA.

Postilla: Quando i generali romani tornavano ebbri dei loro trionfi nella capitale dell’impero, c’era l’usanza di farli accompagnare, durante la sfilata per le strade, da un messaggero che ripeteva di continuo: ‘ricordati che sei solo un uomo, e che dovrai morire’. Anche sul frontespizio del portone di alcuni conventi, troviamo un teschio, e l’iscrizione sottostante: ‘io ero come te, tu diventerai come me’. Tutto è vanità, afferma la saggezza dell’ecclesiaste. Cosa impareranno dunque le élite capitalistiche USA, e i loro alleati europei, dalla lezione afghana? Probabilmente nulla, ma la domanda stessa è retorica, in quanto è impossibile che un algoritmo di investimento finanziario, o se vogliamo la fame da lupi di plus-valore, possa imparare qualcosa. Il capitalismo, per parafrasare un topos concettuale buddhista, è pura brama samsarica. Esso è l’espressione per eccellenza dei tempi oscuri che sta vivendo l’umanità, è la quintessenza dell’età del ferro, in cui predominano le forze del caos. Nondimeno le immagini dell’aeroporto di Kabul segnano uno spartiacque, esse sono il segnale del non ritorno al mito della nazione indispensabile, esportatrice di democrazia e diritti umani. L’ideologia con cui venivano rivestite le mosse geopolitiche americane ai quattro angoli del mondo, è stata distrutta definitivamente dalla disperazione e dal terrore della popolazione afghana che assedia l’aeroporto di Kabul. In definitiva, è come se nella iper-narrazione ipnotica degli ultimi due anni si fosse aperto uno squarcio di verità, una luce, in grado di far comprendere, almeno ad una piccola parte delle moltitudini, il memento mori dell’impero usa, e soprattutto il castello di illusioni funzionale alla sua conservazione.

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