Il male di vivere e il rimedio

‘Il sognatore mente a se stesso, il bugiardo solo agli altri’. Nietzsche

Introduzione

Il sognatore vive nell’illusione che i propri sogni siano reali, dunque egli inganna se stesso. È facile supporre che talmente grande sia il desiderio celato nei suoi sogni, che il sognatore inizia a confondere il confine fra la realtà concreta e il mondo onirico. Sembrerebbero argomenti marginali, di dettaglio, e invece non è così, poiché sono tanti gli uomini che scambiano il sogno con la realtà.

Prima parte: la logica del rimedio

‘Spesso il male di vivere ho incontrato’
Eugenio Montale

Molto spesso una condizione esistenziale difficile, povera di mezzi economici e di gratificazioni affettive, può indurre ad una fuga dalla realtà, una fuga nel mondo dei sogni ad occhi aperti. In questo mondo illusorio tutto è diverso dalla vita che ci è toccata in sorte, anzi è l’esatto opposto. Nella dimensione onirica siamo persone di successo, abbiamo un lavoro invidiabile, una famiglia felice, amici importanti fidati e leali, godiamo di ottima salute. In altre parole siamo ciò che vorremmo essere, e che nella vita reale purtroppo non siamo. Il problema dell’autoinganno ha una base materiale di tipo sociale Marx scriveva che ‘l’esigenza di abbandonare le illusioni sulla propria condizione, è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni ‘. Dunque la causa originaria che spinge l’uomo a mentire a se stesso è di tipo sociale, anche se da questa causa deriva un disturbo della personalità afferente alla sfera della psicologia individuale. Nella riflessione filosofica di Nietzsche l’auto inganno è l’essenza del rimedio al male di vivere. Quest’ultimo nasce dalla paura generalizzata del flusso dionisiaco caotico – la realtà ultima dell’ essere – dove temporanee forme apollinee, create dalla volontà di potenza dei ‘creatori’, i superuomini, producono una parvenza di ordine nel caos primigenio. La religione, nella concezione nietzschiana, è una delle principali risposte al male di vivere delle masse. L’elemento essenziale – in essa – è la rassicurazione sul fatto che esiste un mondo oltre questo mondo, un oltre mondo, dove il conflitto, la morte, il dolore, la malattia sono totalmente assenti. In sostanza anche in Nietzsche, come in Marx, la religione è l’oppio dei popoli. Tuttavia mentre in Marx essa è vista come la consolazione (illusoria) e il lamento della creatura oppressa, in Nietzsche essa è soprattutto la fuga dalla realtà vera del divenire (al di là del bene e del male). Secondo Nietzsche la religione, la morale, la metafisica rappresentano il tentativo di togliere l’innocenza al divenire del mondo, attraverso la condanna della vita (la valle di lacrime). Una condanna fondata sulla base di categorie morali (il bene e il male), create dai vinti, cioè dalle moltitudini di schiavi. Alle religioni monoteiste, in particolar modo quella cristiana, Nietzsche contrappone altre religioni, ad esempio quella dei Veda, dove a suo parere si riflette la salute e la forza di una umanità che accetta la vita, in tutti i suoi aspetti. Anche gli antichi greci, nell’arte tragica di Eschilo e Sofocle, hanno espresso una concezione della vita, lontanissima dalla visione della vita terrena come una valle di lacrime. L’eroe tragico non si fa illusioni, conosce il carattere inquietante e imprevedibile dell’esistenza, eppure ama il proprio destino (amor fati), resta fedele alla terra (‘Così parlò Zarathustra’), non ha bisogno di proiettare in un oltre mondo metafisico il proprio rifiuto di vivere la vita che gli è toccata in sorte, il mondo così come è. Enrico Maria Pontani negli anni settanta scrive un saggio dal titolo ‘La morte degli eroi’. In questo libro vengono analizzate le caratteristiche ricorrenti dei personaggi omerici, alla luce della concezione greca dell’esistenza (intesa come presenza effimera, oscillante tra il nulla prenatale il nulla post mortem). L’eroe omerico è consapevole dell’assurdità dell’esistenza, della sua precarietà, del suo essere per il nulla (direbbe Heidegger), eppure egli accetta tutto il bello e il brutto senza un lamento, con stoicismo. Secoli dopo saranno i samurai giapponesi, coerenti con la filosofia zen, a paragonare la propria vita a quella del fiore di ciliegio. Una breve immagine di bellezza, prima di svanire. Al di fuori della filosofia nietzschiana, oppure dell’arte tragica greca e delle filosofie orientali, il male di vivere ha cercato spesso dei rimedi di tipo oltremondano, in altre parole delle ideazioni metafisiche sottratte alla caducità del tempo e del nulla. Tali rimedi dovrebbero essere un lenitivo per l’angoscia causata dalla minaccia del nulla all’esistenza, o meglio per l’angoscia provocata dal senso comune delle cose, prevalente nelle società divise in classi, dove il divenire è interpretato come un entrare ed uscire delle cose nel nulla e dal nulla. In queste società l’uomo è ormai staccato dal grembo della totalità dell’essere, ha reciso i legami con tutto ciò che lo circonda, e quindi è diventato un mortale, una piccola particella egotica separata dal tutto. Prima, quando ancora non provava l’ebbrezza della separazione dal grembo della totalità, la sua mente non conosceva la morte e il suo linguaggio era caratterizzato dal timbro dell’inflessibile (vedasi ‘Destino della necessità ‘ di Emanuele Severino). Tale timbro era il riflesso di una concezione della realtà tipica delle società senza classi, dove l’uomo è ancora un figlio della terra, e il mondo non si fa piegare, distruggere, manipolare dalla volontà di potenza dei padroni della storia. Nelle società di condivisione non esiste il male di vivere, perché in esse l’uomo è convinto che la vita del tutto sia indistruttibile. L’angoscia e la paura provocata dallo spettro del nulla, ovvero dalla nientificazione dell’esistente, sono sconosciuti.

Seconda parte: l’essere e il niente

Sino a quando esisterà lo spazio e sino a quando vi saranno esseri viventi, sino ad allora possa anch’io essere presente, per poter eliminare le sofferenze del mondo.’ Bodhisattvacharyavatara, Shantideva

Nietzsche riteneva che il termine cosa, ente, che sta a significare ciò che è, fosse esso stesso un errore, in quanto non esistono cose, cioè non esistono realtà fisse e stabili nel divenire. Partendo da questo assunto ‘eracliteo’, Nietzsche esprimeva la sua diffidenza verso la filosofia di Socrate e Platone, ma anche verso la corrente di pensiero eleatica e pitagorica. Secondo Nietzsche il numero e l’essere sono delle pure astrazioni, delle reti concettuali, dei modelli euristici volti a dare una forma apollinea al caos dionisiaco primigenio. In base a tali premesse è la volontà di potenza, che in quanto arte apollinea, produce, al pari dell’opera dello scultore, un mondo di enti stabili e permanenti (intervenendo sulla materia grezza caotica). Dunque la bella apparenza apollinea è solo un interpretazione della realtà ultima (il divenire), tale interpretazione si afferma in ragione della sua forza pratica, su tutte le altre interpretazioni possibili. Volendo portare il ragionamento nietzschiano alle conseguenze ultime, potremmo affermare che il mondo in cui viviamo, la rete di segni (significanti e significati), le parole che denominano gli oggetti, e le azioni, sono solo una prospettiva, un punto di vista prodotto dalla volontà creatrice più forte. Secondo Nietzsche la verità, in quanto assoluto, cioè in quanto proposizione sempre valida in ogni angolo della totalità dell’esistente, è solo una illusione a cui crede quella parte di umanità angosciata dal terribile e bello spettacolo della vita (il volto di Medusa, l’oscillazione delle cose fra l’essere e il nulla, epamphoterìzein). Nietzsche è uno degli ultimi filosofi poeti, il linguaggio che impiega possiede una enorme capacità seduttiva, il pregio fondamentale del suo pensiero è quello di avere svelato il sottofondo nichilista di buona parte della filosofia occidentale. Una filosofia che postula un oltremondo sottratto all’oscillazione delle cose fra l’essere e il nulla. Tale filosofia è definita da Nietzsche nichilista, in quanto negatrice della terra, o meglio del mondo così come è ( cioè dell’oscillazione fra l’essere e il nulla di tutte le cose). Secondo la scuola eleatica, invece, è proprio il contrario. La filosofia del rimedio è nichilista perché è convinta che il nulla, cioè il ni-ente, il non ente, abbia realmente la possibilità di agire sull’ente, cioè è convinta che l’oscillazione esista davvero (e di conseguenza sia necessario un rimedio). Il pensiero di Nietzsche svela l’inganno religioso e filosofico di coloro che pur ammettendo, da un lato, l’oscillazione dell’essere, da un altro lato la negano attraverso la postulazione di un oltremondo sottratto all’oscillazione. Il nichilismo, secondo Nietzsche, sarebbe la volontà di negare l’oscillazione (il presunto mondo reale). Tuttavia, a questo punto, sarebbe utile fermarsi e ragionare sul significato della parola ‘essere’. Il termine, di origine greca, significa ciò che sta, fermo e saldo, nella sua lontananza dal nulla. L’essere è quel qualcosa che si afferma in ogni momento sulla sua negazione, impedendo al non ente, cioè al niente, di affermarsi come esistente, perché il niente, secondo Parmenide, è l’atopon, ciò che non può esistere in nessun luogo (il senza luogo). L’essere invece è il logos, un campo sintattico semantico (una rete di significati e significanti), la cui proposizione fondamentale consiste in questo: l’essere è, il non essere non è. Anche la negazione dell’essere, cioè il niente, è contenuta nella totalità dell’essere, ma come auto negazione. Infatti chi vuole negare la verità dell’essere è costretto comunque a porre come esistente e vera (almeno) la proposizione che nega l’essere (Severino), per cui la negazione dell’essere diventa un auto negazione. In realtà sono le società divise in classi ad essere fautrici della interpretazione nichilista del divenire, mentre le società di condivisione, attraverso lo sciamanismo e l’animismo, hanno testimoniato una diversa concezione del divenire.

Terza parte: nichilismo e violenza (conclusione)

Proveremo a commentare un passo del testo di Emanuele Severino, Téchne -Le radici della violenza, del 1979.

Nell’orizzonte della cultura occidentale, la legge suprema rimane la lotta per l’esistenza. Può essere espressa nel modo seguente: razionale (ossia vero, bello, giusto, ecc.) è ciò che di fatto esiste, ossia ha avuto la forza di effettuarsi – e quindi è l’insieme dei sistemi politico-sociali di fatto esistenti. Irrazionale è tutto ciò (e quindi anche il sistema sociale) che non ha la forza di diventare o di restare un fatto. È inutile che la cultura cerchi ancora dei valori diversi dalla forza; ed è inevitabile che la scienza e la tecnica, come supremi produttrici della forza, divengano la guida del mondo’. Emanuele Severino, Téchne -Le radici della violenza.

Sul blog è stato pubblicato un articolo sul tema della violenza, nel mese di aprile 2022, ecco il link. https://losguardodellacivetta.wordpress.com/2022/04/08/una-societa-violenta/

Epamphoterìzein‘ (oscillazione, piano mediano) è il nome che Platone assegna al mondo fenomenico, il mondo in cui vive l’umanità (o almeno il senso comune delle cose). Platone è il filosofo responsabile del parricidio, il suo concetto di ciò che sta in mezzo (epamphoterìzein) fra l’essere e il nulla è una radicale sconfessione (parricidio) della filosofia di Parmenide. Il logos rivelato al filosofo di Elea dalla dea, nel suo viaggio verso la conoscenza, sul carro trainato dai corsieri ‘che molto vedono’ insegna l’esistenza di due sentieri, il sentiero del giorno e quello della notte. Solo il primo è quello che conduce alla verità dell’essere immutabile ed eterno, mentre il secondo corrisponde all’apparenza del mondo fenomenico. Si badi bene che nell’opera di Parmenide non vi è traccia di negazione dell’esistenza del sentiero della notte, bensì una messa in discussione del suo significato ontologico. Parmenide non nega la realtà del senso comune, la doxa, i mortali dalla doppia testa (che dicono tutto e il contrario di tutto), bensì la verità ontologica del contenuto del senso comune. Possiamo forse contestare questo modo di pensare? Non è forse vero che le maggiori scoperte scientifiche degli ultimi secoli hanno sistematicamente sconfessato le convinzioni radicate nel senso comune? In altre parole il problema non è la presunta negazione (da parte della scuola eleatica) del mondo fenomenico in continuo divenire, bensì il significato di questo mondo. Nella interpretazione prevalente nelle società divise in classi, il piano fenomenico è l’entrata e l’uscita degli enti dal niente. In altri termini gli enti, per definizione degli esseri dotati di esistenza, vengono concepiti come generati dal nulla, cioè dal non esistente. Ma davvero il non esistente può dare origine all’esistente? Aristotele prova a superare l’obiezione eleatica sostenendo che gli enti non vengono generati dal nulla, poiché la materia prima che li compone è preesistente al processo di trasformazione che dà la luce a tutta la molteplicità fenomenica. Severino confuta facilmente il ragionamento aristotelico, ricordando che sebbene la materia che rappresenta il substrato per il passaggio dalla potenza all’atto (degli enti) sia pre-esistente, non è certo pre-esistente la forma distinta indossata dagli enti nel passaggio dalla realtà potenziale alla realtà attuale. In altre parole l’abito indossato dalla materia preesistente è un abito nuovo, ed è nuovo poiché prima non esisteva, cioè non esisteva quella determinata forma assunta dalla materia. Si ritorna dunque alla aporia di partenza: come è concepibile (ontologicamente) che gli enti, sebbene siano solo abiti-forma della materia pre-esistente, possano essere generati dalla dimensione del non ente? Come può il niente, che Parmenide definisce l’atopon, il senza luogo, dare vita al suo opposto? Secondo alcuni critici della corrente eleatica, le disquisizioni logiche di Parmenide nascono dal fraintendimento della parola essere. Tale termine andrebbe inteso solo come un attributo (temporaneo) dei fenomeni, cioè degli enti, nello stadio della loro presenza sul piano reale. Tale attributo (l’essere) sarebbe dunque non presente nello stadio precedente alla nascita degli enti dal nulla, e nello stadio successivo al ritorno degli enti nel nulla. Ovviamente una obiezione suddetta non è niente altro che una riproposizione dell’epamphoterìzein platonico.

Postilla

dato che lo spazio-tempo è curvo, il futuro e il passato possono anche essi curvare e girare intorno, completando così il cerchio che poi continuerebbe in un ciclo infinito“. Gödel

“Il tempo? Se non me lo chiedi so cos’è. Ma se me lo chiedi non lo so più”. Agostino di Ippona

La fisica moderna sembra confermare, dopo migliaia di anni, la concezione della realtà della corrente eleatica, ma anche l’ispirazione di fondo delle filosofie orientali (F. Capra. Il tao della fisica). Epamphoterìzein, ovvero la predisposizione degli enti ad uscire e rientrare nel nulla, è sconosciuta nelle società senza classi, dove la realtà è concepita come un continuum senza inizio e dunque senza fine. La realtà della vita è il destino che trascende la volontà dell’uomo, e dunque la volontà dell’uomo e della tribù non può essere che in accordo con la legge del destino. Ogni cosa ha il suo senso e il suo scopo, nei piani molteplici dell’essere, ogni cosa è destinata ad essere ciò che è. La concezione della realtà degli uomini ‘primitivi’ continuerà ad esserci aliena, se continueremo a vederla come opera di uomini primitivi. Solo con l’avvento delle società divise in classi trova spazio il nichilismo, ovvero la persuasione dominante che le cose siano sottratte al destino, e che la loro esistenza sia sottoposta alla violenza dell’epamphoterìzein.

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