Lotte sindacali, proteste per i diritti civili, programma politico

Nota redazionale: i temi che affronteremo in questo articolo hanno dato vita – nel corso del tempo – ad accesi dibattiti accompagnati da fiumi di inchiostro, con annesse polemiche e accuse reciproche. Le lotte immediate (per la difesa della condizione lavorativa) e le lotte per i diritti civili, si sono intrecciate nel corso della storia con il fenomeno del movimentismo, del tatticismo e dell’attivismo. Stiamo parlando di fenomeni politici viziati da gravi errori teorici, che nelle fasi alterne della lotta di classe hanno causato azioni incoerenti e inefficaci (rispetto agli obiettivi perseguiti). In questo articolo cercheremo di ragionare sul significato di questi tre fenomeni politici, in modo dettagliato. Partiremo dall’ultimo: l’attivismo. Esso consiste nella predisposizione ad agire in modo avventato contro un ostacolo, o un avversario politico, senza considerare l’importanza del terreno di scontro, favorevole o sfavorevole, e la scelta del momento opportuno per agire. In altre parole, l’attivismo è riassumibile nel culto dell’azione fine a se stessa, destinata a fallire e sprecare risorse (di militanza politica). Un aspetto correlato all’attivismo è il velleitarismo, il suo significato è riconducibile alla convinzione di potere raggiungere degli obiettivi superiori alle risorse disponibili (teoriche e pratiche). Il velleitarismo, frutto della pulsione attivistica, è dunque paragonabile ad un sogno ad occhi aperti. Ovviamente le cause dei suddetti fenomeni non sono addebitabili solo alle inclinazioni personali di determinate persone o gruppi, perché le cause risiedono soprattutto nella energia di dominio del sistema. In altre parole le cause essenziali derivano dalla forza delle idee dominanti, che agiscono nella mente degli attivisti, sospingendoli verso l’inutile spreco di risorse di militanza politica. (all’inseguimento di obiettivi velleitari). Paradossalmente, si potrebbe ipotizzare che sia il conformista sociale, sia l’attivista/movimentista, al di là dell’apparente differenza d’intenti, siano in realtà – entrambi – un prodotto del condizionamento socio-mentale dominante. Manifestazioni, sit in, scioperi, marce, sono delle modalità di azione politica, tuttavia queste rappresentano solo una parte della politica (forse solo una piccola parte). Bordiga ha scritto, in vari articoli, che la capacità di pensare, di comprendere le lezioni della storia e di elaborare in modo attendibile i dati dell’esperienza, sono la parte essenziale dell’azione politica. Pensare è il non plus ultra di ciò che definiamo attività. La politica, intesa come elaborazione di strategie e di programmi operativi, ha bisogno del supporto del pensiero e della conoscenza fondata sulle lezioni della storia. Il partito, difensore della specie umana, è innanzitutto pensiero e conoscenza. Torniamo momentaneamente ai fenomeni attivistici. Nel loro novero potremmo includere anche l’appoggio alle lotte per l’indipendenza nazionale, di cui abbiamo trattato in un recente articolo. In sostanza il fenomeno attivistico si manifesta – ovunque – come partecipazione diretta, o semplice appoggio alle proteste e alle lotte che periodicamente sorgono nella società contemporanea. Niente di male dirà qualcuno, nondimeno il problema è nella natura delle lotte e delle proteste che vengono appoggiate dalle forze politiche attiviste. Nel caso delle lotte nazionali si rimanda al recente articolo ad esse dedicato. Per quanto riguarda le altre tipologie di movimenti e di lotte, oggigiorno prevalenti, ci limitiamo per ora a dire che esse sono generalmente effimere, e soprattutto senza incidenza sui reali assetti di potere esistenti. Nei prossimi capitoli affronteremo più in dettaglio la questione. Per ora appare chiaro che attivismo e movimentismo sono quasi dei termini sinonimi, mentre il tatticismo è un fenomeno che presenta delle caratteristiche particolari, di cui tratteremo in un apposito capitolo.

Buona lettura

Capitolo uno: le lotte economiche

Tesi prima: le lotte economiche dei lavoratori vanno intese in modo duplice. In quanto rivendicazioni di miglioramenti salariali e talvolta normativi, e in quanto terreno di crescita politica dei lavoratori.

Tesi seconda: le lotte economiche operaie possono solo determinare delle conquiste salariali e normative effimere, poiché la controparte capitalista ha il potere di annullarle ogniqualvolta lo impongono le esigenze del profitto (sotto il nome di compatibilità economiche generali, competitività del sistema paese, vincoli di bilancio, lotta anti spread, riduzione del debito pubblico, accompagnati dall’immancabile ce lo chiede l’Europa).

Tesi terza: esiste la possibilità che la parabola formata dalla conquista dei miglioramenti salariali e normativi, e dal loro successivo annullamento, faccia crescere una nuova consapevolezza in una piccola frazione operaia (la consapevolezza che solo un nuovo modello di società – a misura d’uomo – potrà garantire migliori condizioni di vita, non annullabili dalle esigenze del capitale).

Tesi quarta: il principale ostacolo che i lavoratori più combattivi (in senso sindacale) devono affrontare sui luoghi di lavoro è la inerzia dei propri colleghi. Tale inerzia è il risultato di una fase storica di stagnazione del conflitto sociale, derivante dalla solidità del potere della classe dominante. Dopo l’involuzione stalinista della rivoluzione di ottobre, su un piano strategico, il proletariato ha subito una sconfitta e una metamorfosi nel modo di pensare e di agire, e ora lotta contro i propri interessi, a tutto vantaggio della classe dominante. Solo una minuscola minoranza di esseri umani ritiene possibile un mondo migliore, mentre la maggioranza della specie umana è convinta che lo status quo sia eterno e immodificabile. Le lotte per il miglioramento delle condizioni salariali e normative sono, conseguentemente, sempre più sporadiche, inoltre in esse si rileva una scarsa partecipazione unitamente a richieste sindacali minimaliste. Le forze politiche attiviste, trascurando questi aspetti, tendono invece a sopravvalutare le sporadiche lotte sindacali esistenti, ritenendole capaci (con il tempo) di confluire dentro un grande movimento di critica dell’attuale modello economico sociale. Il sottinteso attivistico, in questo caso, consiste nel ritenere che un critico politico del sistema troverà sempre un attento uditorio dentro le organizzazioni sindacali dei lavoratori o nelle loro lotte economiche. Invece, un uditorio andrebbe ricercato ovunque vi siano degli esseri umani disposti ad ascoltare senza prevenzioni e preconcetti.

Postilla: sindacati grandi e piccoli

Nove anni fa l’amministratore del blog scrisse un articolo sul sindacalismo. In quell’occasione lo scopo principale era di evidenziare le differenze tra i sindacati di base e quelli tradizionali. All’epoca utilizzammo le categorie sociologiche, movimento e istituzione, per cercare di comprendere le particolarità dei due tipi di sindacato. Osservando alcune costanti nella parabola dei sindacati di base, giungemmo alla conclusione che il loro tragitto era in gran parte diretto verso l’istituzionalizzazione, mentre una piccolissima parte di tali sindacati tendeva a mantenere il profilo originario, e dunque anche una maggiore radicalità nelle forme di protesta e nelle rivendicazioni economiche. Tale sviluppo, differenziato, è tuttora da considerarsi naturale, nel senso che svolge una funzione sociale di rappresentanza di tutti i bisogni di protesta (radicali e moderati) dei lavoratori. In effetti la dialettica tra movimento e istituzione è una realtà di antica data, oltretutto presente in molti ambiti della vita sociale (arte, giornalismo, moda…). Tale dialettica andrebbe valutata, di conseguenza, come una dinamica (fisiologica) interna all’organismo sociale capitalistico. Eppure, c’è una lunga tradizione di fraintendimenti, da parte di alcune forze politiche marxiste, nell’approccio alla questione sindacale. Le cause dei fraintendimenti sono in genere sempre le stesse: attivismo, tatticismo, movimentismo. Cercheremo, a questo punto, di esporre la nostra idea in merito alla differenza tra programma politico e programma sindacale. Il programma sindacale, in via di massima, è orientato al miglioramento delle condizioni lavorative, all’interno del sistema socioeconomico esistente. Il programma politico di un partito marxista, invece, dovrebbe avere come obiettivo la realizzazione di una società socialista a misura d’uomo. Questo obiettivo può implicare l’appoggio e la partecipazione alle lotte operaie. Tuttavia, per evitare lo spreco di risorse militanti, l’impegno può avvenire solo in presenza di tre condizioni: 1) esistenza di un movimento di lotte economiche largamente diffuso (a base sociale operaia), 2) capacità di direzione del partito su tale movimento, 3) inesistenza di riserve patrimoniali a perdere da parte di una quota significativa di lavoratori salariati (case, conti in banca, autovetture). Queste tre condizioni, definite da Bordiga una volta per tutte in un articolo degli anni cinquanta, sono ancora oggi indispensabili per resistere al canto delle sirene attivistiche. Ovviamente, l’inesistenza del quadro sociale ottimale, racchiuso nelle tre condizioni dianzi accennate, non implica che i marxisti debbano chiudersi in casa, ed evitare di lottare per il miglioramento delle proprie condizioni di lavoro, o che non possano esporre le proprie idee (nelle assemblee sindacali, nelle riunioni pubbliche, sui social media, per strada e via dicendo).

Capitolo due: i movimenti di protesta del ceto medio

Il ceto medio è composto da una varietà di figure professionali ed economiche, accomunate dal minimo comune denominatore della minaccia di subire una perdita di status socioeconomico. In altre parole la proletarizzazione. Questa minaccia spinge il ceto medio a protestare, per fare in modo che il peso dei sacrifici e dei tagli economici ricada sul proletariato. Ovviamente tali proteste nulla possono contro la legge della concorrenza e della centralizzazione dei capitali, sono gli effetti di queste leggi che spingono periodicamente sul lastrico centinaia di migliaia di partite Iva (piccole imprese e lavoratori autonomi). La concorrenza fra capitali aziendali produce una selezione che fa emergere alcuni di essi in una posizione di forza sul mercato. Si tratta di un concetto ovvio e banale, eppure, se non viene ripetuto e ricordato, si rischia di perdere il filo di Arianna che ci consente di uscire dal labirinto della ideologia. In questo labirinto le cose vengono mostrate in modo rovesciato rispetto alla loro autentica natura.

Un mondo di illusioni si presenta come reale, mentre tutto ciò che è veramente reale diventa falso e illusorio. Oltretutto, la bugia viene spesso fatta assurgere a dogma dalla classe dominante, e di conseguenza anche una semplice critica (nei suoi confronti) può comportare delle spiacevoli conseguenze (per colui che ha l’ardire di criticare). Potremmo riportare molti esempi (recenti e remoti) a conferma di quanto sostenuto, ma non ne varrebbe la pena, poiché come sempre la nostra analisi mira a fornire delle chiavi di lettura generali della società contemporanea, senza soffermarsi su singoli episodi e casi particolari. Una frazione del ceto medio è destinata alla proletarizzarizazione, cioè a perdere il precedente status socioeconomico. Le leggi dell’economia capitalistica impongono questo tributo al ceto medio. D’altronde quando parliamo di leggi economiche non possiamo dimenticare la miseria crescente, che si collega sia alla proletarizzarizazione del ceto medio, sia alla disoccupazione tecnologica creata dalla variazione organica del capitale aziendale. La borghesia, dal proprio canto, cerca di presentare il modello socioeconomico capitalistico come il migliore dei mondi possibili. Il mito della società dell’affluenza, dove quote crescenti di cittadini possono affluire nel fiume del benessere e del consumo, è solo l’ennesimo rovesciamento della realtà (la miseria crescente). Nel mondo reale, invece, le stesse leggi di sviluppo del capitalismo alimentano il conflitto sociale. Le proteste del ceto medio, come d’altronde le lotte economiche a base operaia, sono generalmente rivolte al miglioramento della propria condizione socioeconomica, dentro i confini del sistema capitalistico. Inutile dire che tale obiettivo può essere raggiunto solo in modo limitato e temporaneo, in determinati periodi di crescita economica e in particolari ambiti territoriali ad alto grado di sviluppo economico. In altre parole la proletarizzazione del ceto medio non può essere fermata, così come le proteste di questo ceto contro di essa. Un soggetto politico marxista deve considerare che il contenuto reale delle proteste originate dal ceto medio è la restaurazione del precedente status sociale. Qualunque sia la maschera assunta contingentemente da tali proteste, il loro contenuto di fondo è sempre lo stesso. La questione che riveste un serio interesse, per un soggetto politico marxista, è invece un’altra. Essa è la questione dell’adesione al programma politico di cambiamento, in senso socialista, dell’attuale società, da parte di ogni essere umano (in maniera indipendente dall’appartenenza statistica al ceto medio, alla borghesia, al proletariato o al sottoproletariato ). In altre parole, parafrasando Bordiga, è la scelta di campo tra conservazione e cambiamento che qualifica politicamente un essere umano, non certo il suo posizionamento statistico all’interno di una classe sociale. A questo punto del discorso qualche zelante critico ci dirà che il nostro ragionamento sembrerebbe azzerare le differenze di classe (nei processi di mutamento sociale). Ripetiamo allora che non si tratta di questo, poiché il nostro blog non nega affatto la missione storica del proletariato, in quanto classe destinata a realizzare il ritorno alla originaria società senza classi. Il nostro appunto riguarda l’adesione all’organo energetico della classe proletaria, ma più in generale della specie umana, cioè il partito (da noi definito, al di là delle vecchie diciture, partito umano/trasformazionale). L’adesione è sempre di tipo individuale, e prescinde dal posizionamento statistico di classe, ricorda Bordiga, poiché in questo caso vale un altro posizionamento, quello tra il campo della conservazione e il campo del cambiamento.

Capitolo tre: le battaglie per i diritti civili e il mantenimento dei rapporti di produzione capitalistici

Un organizzazione politica marxista non può che auspicare il superamento di ogni discriminazione, violenza e vessazione verso una parte degli esseri umani, da parte di altri esseri umani. In un recente articolo (Alle radici della violenza) abbiamo tuttavia ricordato che è la divisione in classi della società la radice profonda di ogni successiva forma di violenza. Dunque, a nostro avviso, un limite importante delle attuali lotte per i diritti civili (o almeno di una parte di esse) è l’assenza (in coloro che vi partecipano) di una chiara visione delle cause profonde (sistemiche) che ostacolano la realizzazione di determinati ‘diritti’. In altre parole il centro della questione non dovrebbe consistere nell’accusa di una ipotetica sottovalutazione (da parte del blog) dell’importanza delle lotte contro le varie forme di discriminazione, violenza e razzismo: il centro della questione dovrebbe essere nel fatto che solo la realizzazione di un altro modello di società, potrà tagliare alla radice le cause che pongono in essere tutte le forme di violenza, discriminazione e potere dell’uomo sull’uomo.

Postilla: tattica e tatticismo

In via di massima esiste una consolidata distinzione di significati tra i termini tattica e tatticismo. La tattica può essere intesa come l’insieme di azioni e fasi operative particolari miranti a realizzare un obiettivo generale (definibile, proprio in quanto di natura generale, obiettivo strategico). Il tatticismo è invece assimilabile ad una degenerazione della tattica, cioè ad un insieme di fasi operative particolari fini a se stesse, cioè separate dalla finalizzazione ad un obiettivo generale. Nella sfera politica marxista la degenerazione del tatticismo è causata essenzialmente da una propensione opportunistica, cioè dal desiderio di rinviare sine die la realizzazione di una nuova/antica società comunitaria, a tutto vantaggio di risultati intermedi senza scopo e senza termine.

Conclusione

Le lotte economiche (sindacali) e le lotte per i diritti civili possono svolgere un ruolo importante per la realizzazione del cambiamento sociale. La condizione affinché questo ruolo venga svolto è l’inserimento consapevole di tali lotte all’interno di un programma politico diretto al cambiamento dell’attuale modello sociale, cioè al superamento dei rapporti di produzione capitalistici. In questo articolo abbiamo ricordato le tre condizioni indispensabili per fare in modo che l’azione politica possa interagire in modo efficace con le lotte economiche. Anche le battaglie civili, a nostro avviso, potrebbero essere inserite, a determinate condizioni, in un processo di cambiamento reale dell’attuale modello socioeconomico. La differenza tra l’impazienza attivistica e il realismo politico consiste nella diversa considerazione delle circostanze, in cui dovrebbe agire il soggetto politico (il partito). È banale ripetere sempre le stesse cose, ma senza le circostanze appropriate, ogni azione politica è destinata a fallire. Il lavoro politico serio deve dunque evitare i voli pindarici tipici dell’attivismo sterile, e concentrarsi, invece, sul metodico e spesso oscuro lavoro di creazione delle circostanze (indispensabili per un azione politica di successo).

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