Alle radici della violenza

Nota redazionale

Abbiamo già affrontato il tema della violenza (e delle sue variegate manifestazioni) in qualche altro articolo pubblicato sul blog, con il presente lavoro intendiamo approfondire le precedenti analisi, puntando maggiormente l’attenzione sul fenomeno della reificazione. Tale fenomeno consiste nella trasformazione in cosa di un essere vivente. Il senso della trasformazione consiste nel fatto che ciò che in precedenza era considerato un uomo o una donna, dunque esseri capaci di provare emozioni e sentimenti, viene ad un certo punto visto come un oggetto, o se vogliamo uno strumento da utilizzare per gli scopi del proprio padrone. Tuttavia, quando i padroni non esistevano ancora, gli esseri umani erano membri di comunità organiche dove ogni uomo o donna era inserito in un organismo sociale, senza distinzioni tra schiavi e padroni. Sulla falsariga del pensiero di Hegel, che afferma che tutto ciò che è reale è razionale, alcuni interpreti delle opere di Marx hanno dedotto che il corso storico sarebbe guidato da un determinismo assoluto, cioè da un destino immutabile. La conseguenza di una tale impostazione filosofica consiste nel ritenere assolutamente inevitabili tutte le vicende storiche, e nello specifico tutti i passaggi da un modello di società ad un altro. La questione del divenire storico, da intendere come un fiume dal corso già tracciato, è invece stata spesso criticata nello stesso ambito del marxismo. In effetti, tutto ciò che possiamo osservare, nello svolgimento del divenire storico, è l’esistenza di forze attrattive che tendono ad indirizzare il corso degli eventi in una certa direzione, oppure in un altra direzione. La teoria del caos ha elaborato, nel secolo scorso, una visione realistica del divenire: in questa teoria il termine attrattore indica una forza in grado di indirizzare l’apparente caos degli eventi in una certa direzione. Assunto tale presupposto, è ipotizzabile che si possa prevedere, con un certo grado di probabilità di successo, il corso di massima degli eventi. Siamo dunque lontani dalla idea di una legge assoluta (epistemica) posta alla guida gli eventi storici (la hegeliana astuzia della ragione). Ovviamente l’assenza di una legge assoluta non implica l’inesistenza di nessi di causa ed effetto, che andrebbero indagati e studiati con meticolosa attenzione. Questi nessi, tuttavia, sono di tipo probabilistico, così come le leggi della scienza moderna (naturale e sociale) sono di tipo ipotetico probabilistico (vedasi ‘Legge e caso’ di Emanuele Severino). Il marxismo, ad esempio, ritiene che la violenza e il potere dell’uomo sull’uomo siano un prodotto storico, un fenomeno che si è manifestato quando la società si è divisa in classi sociali. Non si tratta – però – di un destino immutabile della specie umana, bensì di una possibilità storica che ha avuto la forza di affermarsi (attualizzarsi) a discapito di altre possibilità, ugualmente esistenti a livello potenziale (vedasi Aristotele: teoria dell’essere in potenza ed in atto). Si rifletta, a questo punto, sulla circostanza che sono sempre stati i vincitori a scrivere la storia, presentando la propria vittoria come un evento inevitabile, da sempre scritto nel libro del destino. A questo punto ci chiediamo: le società senza classi dovevano davvero, per una presunta necessità storica, essere destinate a scomparire? In realtà non possiamo che rispondere no, perché un conto è constatare quello che è accaduto, un altro conto è l’idea che quello che è accaduto doveva inevitabilmente accadere. Allora, invece di sostenere l’esistenza di un destino storico immutabile, sarebbe meglio studiare scientificamente i fatti storici, indagando sugli attrattori caotici, cioè sulle forze e sulle circostanze concrete, esistenti in un certo contesto di tempo e di luogo. In altre parole, date certe condizioni concrete, si può anche concludere che gli eventi dovevano, con un elevato grado di probabilità, andare in una certa direzione invece che in un altra. Lo studio scientifico della storia esclude sia la teleologia, cioè la concezione finalistica, sia l’idea che tutto ciò che è reale è razionale (alias divina provvidenza). Di conseguenza la violenza sociale, insita nelle società divise in classi, lungi da essere un fatto naturale, sarebbe invece da considerarsi un prodotto storico, determinato da una certa direzione degli eventi sociali: una direzione condizionata a sua volta dalla prevalenza di certi attrattori caotici rispetto ad altri attrattori.

Prima parte: la violenza nel periodo delle comunità funzionali

Nella sua dimensione fisica la violenza può manifestarsi come uccisione, ferimento, tortura, segregazione, stupro, genocidio (di una creatura vivente o di un intero gruppo). Gli animali sono costretti a predare e mangiare le prede per sopravvivere. Anche le primitive comunità di cacciatori e raccoglitori erano costrette a cacciare le prede allo scopo di sopravvivere. Sembra accertato che nel periodo del comunismo primitivo si verificassero degli scontri sporadici tra le comunità tribali, tali scontri erano probabilmente legati alla questione dello spazio vitale, cioè al desiderio di controllare le scarse risorse (animali, frutti, bacche) presenti in un determinato territorio. Tuttavia gli scontri non potevano avere le stesse caratteristiche presenti nelle successive società classiste, dove l’obiettivo principale era il bottino di schiavi. Bisogna considerare che nelle società classiste la violenza si manifesta innanzitutto all’interno del rapporto fra classe dominante e classe dominata. Ed è in questo tipo di società che ha origine il potere dell’uomo sull’uomo, cioè la schiavitù. Nell’antichità classica, se non eri un membro della classe dominante, allora non eri generalmente un uomo libero, eri solo uno schiavo del potere sociale dei padroni della vita. Epitetto scriveva, oltre duemila anni addietro, che solo chi non vive in schiavitù può essere considerato un uomo libero. Spostiamo ora l’attenzione verso l’epoca che ha preceduto la divisione della società in classi di schiavi e padroni. Marx ha usato il termine ‘comunismo primitivo’ per definire quell’epoca. Si è trattato di un lungo periodo di tempo, durato centinaia di migliaia di anni. Nel corso di questo lungo lasso di tempo è avvenuta l’evoluzione della specie umana, culminata con l’affermazione dell’homo sapiens (tra il paleolitico e il neolitico). Dunque, lungi dall’essere un periodo privo di cambiamenti, il comunismo primitivo è stato caratterizzato da importanti passaggi evolutivi. Le recenti scoperte archeologiche di Mohenio Daro e Harappa, due ‘civiltà’ scomparse intorno al 3000 A.C, dimostrano che il comunismo aveva ben poco di primitivo, nelle sue ultime manifestazioni storiche. Torniamo alla questione delle comunità funzionali e della violenza. La comunità funzionale, altrimenti definibile organica, è paragonabile per sommi capi al centralismo organico. In quest’ultimo è presente una ripartizione funzionale dei compiti, sebbene ogni componente del gruppo possa tendere potenzialmente a svolgere (secondo le sue capacità) tutte le varie funzioni esistenti. In natura sono osservabili varie specie viventi, in esse sono generalmente presenti individui più dotati o meno dotati (in determinati campi). Nelle arcaiche società di Mohenio Daro e Harappa erano presenti tre funzioni sociali: le funzioni sacerdotale, guerriera, produttiva. Gli studi di Georges Dumezil hanno ritrovato nel pantheon delle religioni dei popoli indoeuropei (e non solo di essi) una tripartizione della divinità, fondamentalmente associabile alla tripartizione delle funzioni sociali (anzidette). Le comunità arcaiche, in altre parole, non erano formate da una massa indistinta di componenti tutti identici, bensì da soggetti che, in base alle proprie capacità, svolgevano differenti funzioni afferenti al bene comune. In altre parole la diseguaglianza esistente tra le capacità e le attitudini dei singoli componenti della comunità funzionale, era un fenomeno vantaggioso per il progresso collettivo.

Seconda parte: la violenza dello sfruttamento schiavistico

L’avvento delle società divise in classi può essere spiegato in vari modi. Il saggio di Bordiga (Forza, violenza e dittatura nella lotta di classe) contiene una interessante descrizione genealogica della nascita delle classi sociali. In tale descrizione gioca un ruolo importante l’aumento della capacità produttiva dell’economia. In altre parole, la creazione di un surplus di prodotti, eccedente le esigenze collettive, ad un certo punto iniziò ad essere monopolizzato da una minoranza sociale, che andò a formare l’embrione della futura classe dei padroni. Possiamo ritenere oziosa una discussione sulla inevitabilità o sulla evitabilità della svolta storica che portò alla divisione in classi della società, tuttavia, per una storia realistica della violenza, sarebbe importante fare un collegamento fra la violenza e il modello sociale in cui essa si è di volta in volta manifestata. Nelle società divise in classi la violenza è innanzitutto visibile nello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Allo scopo di sfruttare degli esseri umani, le prime classi dominanti hanno fatto ricorso alla violenza, ottenendo, attraverso la violenza, la riduzione in schiavitù dei prigionieri di guerra, oppure dei membri più deboli della propria società. La schiavitù implicava (e implica) il soggiogamento fisico e mentale dello schiavo, che in quanto tale è solo un mezzo al servizio del padrone. Chiariamo subito che la condizione del lavoro salariato è formalmente differente da quella dello schiavo dell’antichità, o dal servo della gleba medioevale. Alle volte in vari scritti o discorsi utilizzato il termine schiavitù salariata, tuttavia questa definizione non è esatta, in quanto il lavoratore salariato ha pur sempre la possibilità di rifiutare il lavoro (e la connessa estrazione di pluslavoro), anche se l’alternativa è molto spesso la morte per fame e indigenza. Lo schiavo dell’antichità poteva essere libero, invece, solo fuggendo oppure togliendosi la vita. Nel mondo borghese il lavoratore salariato non è costretto con la forza a svolgere un servizio agli ordini di un padrone, infatti almeno formalmente egli è libero di non firmare il contratto di lavoro. Ovviamente l’esigenza di ottenere dei mezzi di sussistenza, lavorando al servizio dei padroni capitalistici dell’economia, rende statisticamente quasi inesistenti i casi in cui il lavoratore decide di esercitare la libertà di rifiutare un lavoro salariato. Tuttavia, almeno sul piano legale, il moderno lavoratore salariato è libero di rifiutare il lavoro offertogli dal capitalista, mentre lo schiavo dell’antichità non aveva neppure questa alternativa. Da un punto di vista pratico, l’estrazione di pluslavoro che si consuma nel processo produttivo capitalistico, è un modo di manifestazione dello sfruttamento dell’energia lavorativa. Dal momento che il lavoro salariato (e l’estrazione di pluslavoro) ha come alternativa la totale privazione di mezzi di sostentamento, il proletariato è di fatto obbligato a scegliere il cosiddetto male minore del lavoro salariato. In effetti l’alternativa tra l’estrazione di pluslavoro e l’assenza di mezzi di sostentamento è già di per sé una forma di violenza.

Terza parte: violenza latente, violenza cinetica, violenza virtuale

Nel testo ‘Forza, violenza e dittatura nella lotta di classe‘ Bordiga ha analizzato le differenze tra la violenza cinetica e quella latente (nell’aspetto generale e nell’aspetto specifico, cioè nell’aspetto riferito all’attrezzatura statale delle classi dominanti storiche). Nel corso storico (delle società divise in classi) ogni classe dominante ha avuto bisogno di una attrezzatura (statale) di dominio, tale attrezzatura è una componente della sovrastruttura (Marx). Struttura economica e sovrastruttura politico statale/ culturale ideologica hanno formato, nel corso della storia, gli apparati delle classi dominanti (antico schiavistiche, feudali, borghesi). Secondo Bordiga, nell’attrezzatura statale è conservata l’energia di dominio di una determinata classe sociale. Dunque lo stato è innanzitutto la forza organizzata di una determinata classe sociale, poiché in via di massima ogni dominazione (anche quella del partito bolscevico che era alla guida dello stato dei soviet) incontra delle resistenze (da parte della classe dominata, oppure dai resti della vecchia classe dominante). Bordiga, nel saggio prima citato, fa continui riferimenti al testo di Engels (L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato). Infatti è in questo testo che viene spiegata con chiarezza l’origine e la funzione dello stato. Nella maggior parte dei casi il controllo sociale (nei confronti dei potenziali avversari dello status quo) avviene attraverso la semplice minaccia della violenza. Bordiga chiama violenza latente questa modalità di controllo sociale.

La violenza cinetica vera e propria molto raramente ha bisogno di manifestarsi, dato che il controllo sociale è generalmente ottenuto sia con la semplice minaccia della violenza (violenza latente), sia con la violenza virtuale della manipolazione mentale (ideologica) di massa. Abbiamo già dedicato vari articoli al tema della manipolazione ideologica, quindi per ora ci limiteremo a ribadire le cose essenziali già affrontate in precedenti articoli. I processi di formazione della psicologia sociale e del pensiero collettivo sono stati ampiamente studiati nel corso della storia. Parmenide ha descritto ‘i mortali dalla doppia testa‘, cioè coloro che ‘dicono e non dicono la stessa cosa nello stesso momento ‘. Nella concezione di Parmenide il pensiero comune è dominato dalla incoerenza, essa deriva dalla concentrazione dello sguardo verso la superficie apparente dei fenomeni. In questa superficie gli enti sono e non sono, e il senso comune, che è il riflesso di quella superficie, è persuaso che la realtà sia un oscillazione tra l’essere e il nulla (Severino). Eraclito descriveva il senso comune come il risultato di un processo in cui gli uomini accendono una candela, ma al contempo spengono la vista alla luce del Logos. Essendo convinte che la realtà ultima consista nella oscillazione degli enti tra l’essere e il nulla, le società classiste, subentrate al comunismo primitivo, hanno iniziato a pensare di potere disporre liberamente degli enti, o meglio di ogni aspetto della vita. Hibris, volontà luciferina di potenza, libertà di distruggere o di preservare ogni ente. Nella concezione dei popoli ‘primitivi’ la realtà è un organismo unitario, dove ogni aspetto è dotato di anima, vita, esistenza. All’interno di questa realtà unitaria tutto ciò che accade è destinato ad accadere, l’uomo è persuaso che la sua volontà può ottenere solo ciò che è stabilito al di fuori di essa, nella sfera dell’imperscrutabile. Invece la volontà di potenza del piccolo uomo che si sente signore del mondo è classificata come hibris da Anassimandro, e come follia da Parmenide. Nel comunismo primitivo la concezione dell’essere era dunque fondamentalmente antitetica a quella prodotta nelle successive società divise in classi. Queste società, sulla base della esperienza del dominio di classe, hanno infatti iniziato a concepire gli enti come oggetti che possono essere creati e distrutti, schiavizzati e violentati. Tutta la realtà, in linea di massima, all’interno di questa concezione, deve sottomettersi si disegni della volontà di potenza. I padroni della vita, gli schiavisti, diventarono i modellatori della realtà, ‘sarete come dei‘. Spinti dalla volontà di potenza, i modellatori sono stati e sono al contempo anche i coltivatori dell’uomo. Essi si intrufolano come un parassita nella mente dei dominati, e quindi, oltre a rubare (ai dominati) l’energia vitale (attraverso il lavoro servile), riescono persino a cancellare, nella mente di essi, le tracce di un pensiero autonomo. La violenza virtuale, infatti, consiste proprio nella capacità, della classe dominante, di impadronirsi della mente della classe dominata.

Quarta parte: la fine della violenza (di classe) come restaurazione dell’ordine sociale comunitario (conclusione)

Da quanto scritto finora risulta chiaro che la divisione in classi della società è l’evento (traumatico) che pone in essere le radici della violenza (e del potere dell’uomo sull’uomo). In origine, grosso modo 5000 anni fa, il cosmo fraterno e solidale della comunità arcaica venne distrutto e sostituito da un mondo crudele diviso in padroni e schiavi. Nel corso di questi cinque millenni vi furono continue lotte per il potere fra i padroni, e sempre nuove forme di oppressione per gli schiavi. È anche vero che nello stesso periodo di tempo l’umanità è stata in grado di produrre importanti opere d’arte, elaborare raffinate ricerche filosofiche, scoprire sempre nuovi aspetti della realtà attraverso la scienza. Eppure, anche questi modi essere del genio umano (arte, scienza, filosofia) sono stati spesso convertiti alla celebrazione del potere, oppure al suo sviluppo e alla sua conservazione materiale. La divisione della società in classi antagoniste di oppressi e oppressori, avvenuta diversi millenni orsono, è stata frutto della violenza (resa possibile dal sorgere di determinate circostanze materiali, si veda Forza, violenza e dittatura nella lotta di classe). Le radici storiche e sociali dei molteplici fenomeni violenti presenti nella società contemporanea, affondano dunque nel terreno della divisione di classe. Di conseguenza, sembra inevitabile concludere che solo la scomparsa dell’attuale modello di relazioni sociali, potrà favorire un ridimensionamento quantitativo e qualitativo dei fenomeni violenti che segnano i nostri tempi moderni.

Postilla: violenza e reificazione

Con la divisione della società in classi antagoniste, nel panorama storico compare la figura dello schiavo, cioè dell’uomo disumanizzato e ridotto a cosa. La sua essenza è quella di uno strumento al servizio dei fini di un padrone. Le azioni e i pensieri dell’uomo cosa sono proprietà di una forza esterna ad esso. Non c’è amicizia, solidarietà o comunanza di intenti e sentimenti da parte del padrone verso lo schiavo, poiché lo schiavo è solo materiale di consumo. D’altronde, il senso della schiavitù consiste proprio nella negazione del valore intrinseco della vita dello schiavo. Egli non conta nulla, è una bestia da soma che può essere venduta o acquistata in base alle esigenze del suo proprietario. Merce, oggetto, strumento, cosa. Invece nelle società comunitarie esistite prima della schiavitù, l’uomo era inserito in un contesto magico-rituale, dove ogni aspetto della realtà poteva essere simbolo di un principio, o meglio di una regola generale. L’interazione sociale era caratterizzata dallo scambio simbolico (Marcel Mauss, Jean Baudrillard), poiché in essa vigeva l’obbligazione rituale del dono e del contro dono. L’uomo era parte di un tutto, comprendente non solo il gruppo sociale, ma anche gli altri piani della realtà. Animismo, sciamanesimo, magia, convergevano in una concezione olistica del reale. Oggigiorno è difficile comprendere il senso della vita di quegli uomini ‘primitivi’, poiché la patina di razionalismo che ottunde le nostre percezioni è forte e stratificata. Cogito ergo sum, il razionalismo cartesiano ci ha insegnato a separare il pensiero dal corpo macchina, anche se poi Cartesio è stato solo uno fra i tanti assertori della distinzione dualistica tra il mondo delle idee e il piano dei fenomeni. Spirito e materia, pensiero e corpo. Bordiga aveva ben individuato, nel ciclo di conferenze sulla conoscenza negli anni sessanta, le caratteristiche dualistiche del pensiero delle società divise in classi. E soprattutto aveva ipotizzato che tale dualismo avesse avuto la sua origine concreta nella divisione in classi della società.

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